Da Laura Bianconi,
'Culture and Identity: Issues of Authenticity in Another Value System'.
Tesi di laurea inedita. Università di Perugia, 1999.




L’etnografo cerca, in seguito, di rintracciare i valori della cultura in esame, analizzando gli eventi cui partecipa, cercando di raccogliere il maggior numero possibile di informazioni negli scambi faccia a faccia con i suoi informatori, vale a dire nelle conversazioni quotidiane. Agar utilizza l’espressione “detached involvement” per caratterizzare il ruolo dell’etnografo: ‘One is, at the same time, part of and distant from the community. One struggles to understand with involvement in the society; at the same time, one stands back critically to examine what one has learned’ (Id.: 50). Usando l’interazione diretta, egli cerca di individuare ‘patterns across events’ (Id.: 115), che gli permettano di capire il perché i suoi interlocutori si comportino in una determinata maniera ed i valori profondi che dirigono i lori atteggiamenti. Per riuscire a fare propri i valori esistenziali di un’altra cultura, non è però sufficiente analizzare il comportamento e rintracciarne il valore epistemico. L’etnografo si trova davanti ad una scelta: ‘either keep your distance or “go native”. You keep your distance at the risk of failing to understand the complexities of a human situation different from your own. You go native, but then stop functioning as a social scientist’ (Id.: 51). Se vogliamo essere in grado di comunicare efficacemente in un’altra cultura dobbiamo, infatti, essere accettati come membri effettivi della comunità, cambiando il nostro comportamento e adattandolo alle sue norme.

Per fare questo, una volta individuati dei patterns (che possiamo riconoscere nei parametri culturali esaminati nel capitolo precedente), dobbiamo trasformarli in massime che individuano aspetti concreti del comportamento umano. Ad esempio, per rendere concreti i valori di una cultura monocronica (cfr. 2.2.4.3.), si potrebbe dire “Devo sempre rispettare i miei impegni ed essere puntuale”; oppure, nel caso di una cultura molto mascolina (secondo il parametro masculinity/femininity identificato da Hofstede, cfr. 2.2.4.5., punto 3), si potrebbero formulare massime quali “Devo essere forte e sicuro di me, perché queste sono le qualità che mi faranno realizzare le mie ambizioni ed essere una persona di successo”, oppure “La ragione è dei forti”. Dopo aver formulato una lista di massime che corrispondono alla cultura in questione, bisogna comprenderle in profondità, così da farle nostre a livello epistemico. In seguito, bisogna ripeterle ad alta voce, con lo scopo di interiorizzarle e di appropriarsene in modo tale da riuscire a provare gli stessi bisogni ed emozioni (livello emotivo), e di avere gli stessi intenti (livello volitivo) dei membri di quella cultura.

Questa sorta di io fossi nelle condizioni di Ofelia, che cosa farei?”), dilatare il proprio io fino a che non si riesce a vivere in maniera autentica nei panni del personaggio. Come scrive lo stesso Stanislavskij, ‘when we are discussing how to transmit genuine human emotions (…) then the only medium between them and the public cannot be an actor’s mind and technique, but only his own living emotions’ (1958: 172). Quello cui l’attore deve mirare è ‘the development of his sense of truth, which supervises all of his inner and physical activity both when he is creating and also when he is performing his part. It is only when his sense of truth is thoroughly developed that he will reach the point when every pose, every gesture will have an inner justification, which is to say they express the state of the person he is portraying and do not merely serves the purposes of external beauty, as all sorts of conventional gestures and poses do’ (Id.: 189).

Per diventare momentaneamente qualcun altro bisogna conoscere la sua prospettiva sul mondo, le sue attitudini, emozioni, paure, le sue aspirazioni e ambizioni. Solo nel momento in cui riesce ad interiorizzarle, l’attore sarà in grado di mettere in scena un individuo reale, che vive in modo autentico e si esprime spontaneamente. Tuttavia, l’attore non perde se stesso sulla scena. Al contrario, ‘l’io dell’attore è il primo e unico ponte possibile verso il personaggio. Intorno ad esso verranno suscitate le circostanze immaginarie alle quali l’io-attore reagirà in analogia sempre più stretta con l’io-personaggio, sollecitando insieme possibilità nascoste parallele all’io-personaggio, finché, dalla somma di tali interazioni, nascerà il personaggio, creatura vivente’ (Guerrieri, 1996: VI-VII). Come l’esperto interculturale, egli non dimentica la propria personalità o la propria identità culturale, bensì lavora su se stesso per trasformarsi ed accogliere in sé la cultura altrui.

Alla fine di questo processo di introiezione saremo finalmente in grado di sperimentare la realtà in modo diverso, potremo davvero capire ciò che l’altro prova e, di conseguenza, scegliere come comportarci nei suoi confronti. Un cambiamento sostanziale è avvenuto: non sapremo solo adattarci alle norme ed imitare i comportamenti più appropriati nell’altra cultura, in una pratica che, essendo pura ripetizione formale, viene percepita come una finzione; ma sapremo essere autentici ed esprimerci in modo naturale, partecipando alla co-produzione del senso degli eventi conversazionali così come i membri nativi di quelli cultura.









Stanislavskij, K. S. (1958): Stanislavskij’s Legacy. London: Methuen (Reprinted in 1986).