SSIS: Glottodidattica II - Patrick Boylan - Riflessione - 11.04.01
Da
un prossimo numero della Newsletter
dell'Associazione Italiana Anglistica:
una
riflessione sul futuro dell'insegnamento dell'inglese "oltre" la
metodologia comunicativa.
COSA
VUOL DIRE INSEGNARE L'INGLESE PER LA "COMUNICAZIONE INTERCULTURALE"?
Pur essendo diventata una
buzzword anche in Italia, la "comunicazione interculturale" -- tema
dei convegni appena descritti -- non è un campo di studio molto
conosciuto. Ne segue perciò una breve
descrizione, di particolare attualità adesso che l'università italiana sta
ripensando l'insegnamento delle lingue alla luce della riforma dei corsi di laurea.
-------
La Comunicazione Interculturale
è un campo di ricerca che abbraccia ed oltrepassa la moderna Didattica delle
Lingue (o "Glottodidattica").
Per capire bene in che cosa consista, può essere utile ricordare
brevemente l'evoluzione dell'insegnamento delle lingue in questi ultimi decenni.
Fino agli anni '60 la
Glottodidattica si è limitata ad elaborare metodi per insegnare più
effi-cacemente la grammatica normativa e la "corretta" formulazione
di enunciati: il metodo naturale, il metodo diretto, i metodi audio-linguale ed
audio-visivo e via discorrendo. Poi,
negli anni '70, l'enfasi si è spostata sull'efficacia e l'appropriatezza di un
discorso in lingua: la didattica delle lingue è diventata
"comunicativa". Con gli anni
'80 si è fatta strada la con-sapevolezza che "imparare a fondo una
lingua" significa ANCHE introiettare parametri cul-turali nuovi. (Solo così, infatti, possiamo reagire
autenticamente ad un "testo" in lingua, orale o scritto, e produrre a
nostra volta, nei limiti dettati dal nostro ruolo di non-nativi, discorsi che
suonano autentici.) La didattica delle
lingue, cioè, è diventata "comunicativo-culturale."
Infine, negli anni '90 è
emersa un'ulteriore esigenza nell'insegnamento delle lingue, particolarmente
sentita da chi insegna l'inglese, vale a dire l'esigenza di rendere gli
studenti capaci di comunicare interculturalmente. Questa esigenza non nega i traguardi formativi dei decenni
precedenti: correttezza grammaticale, appropriatezza situazionale, autenticità
culturale. Ma aggiunge l'esigenza di
saper usare l'inglese -- in quanto lingua pluriculturale ed internazionale --
con chi non parla il cosiddetto "Queen's English" e anche con chi non
è nemmeno di matrice culturale anglosassone.
Infatti, con l'accelerazione
della globalizzazione, sapere l'inglese oggi significa "sapersi
relazionare culturalmente" con interlocutori di varie provenienze:
1.) sapersi relazionare,
quindi, con qualsiasi nativo parlante "anglosassone" (irlandese,
australiano, americano, neozelandese, inglese, canadese...), adattandosi alla sua
specificità linguistico-culturale;
2.) sapersi relazionare con
gli anglofoni dell'India, della Nigeria, della Giamaica o del moderno Sud
Africa, i quali parlano, sin dall'infanzia, un inglese con radici culturali in
larga parte non anglosassoni;
3.) infine, sapersi
relazionare con tutti coloro che, negli incontri internazionali, usano un
inglese imparato solo a scuola e che, di conseguenza, impostano i propri
discorsi secondo i più disparati parametri culturali: giapponesi, greci,
iraniani, brasiliani e via discorrendo.
Oggi, dunque, la
Glottodidattica indaga su metodologie per l'insegnamento
"interculturale" delle lingue, in particolare della lingua
inglese. Come preparare lo studente a
cogliere e a far propri la forma mentis e il sistema di valori degli
interlocutori che egli ha di fronte, chiunque essi siano? Come preparare lo studente ad utilizzare
queste cognizioni per farsi capire nella maniera più comprensibile (e
congeniale) possibile?
Va tenuto presente che il
lavoro di adattamento avviene non tanto a livello grammaticale -- anche se, in
certi casi, potrebbe tornar utile saper usare American English in America, Indian
English in India, ecc. -- quanto sul
piano delle modalità d'interazione e di rappresenta-zione da usare: maniera
d'interrompere, topics da privilegiare, modo d'argomentare, scelta di metafore,
uso di titoli ed appellativi, cogestione dei silenzi e così via.
L'insegnamento
"interculturale" della lingua inglese offre anche dei vantaggi
collaterali. La capacità d'adattamento
acquisita dallo studente gli consente di adoperare più proficuamente anche
altre lingue franche, come ad esempio il francese per intavolare una
discussione con nord africani o l'italiano per trattare con una delegazione di
somali. Inoltre, questa stessa
capacità prepara lo studente alla mediazione culturale quotidiana, cioè al
superamento delle microconflittualità che nascono da fraintendimenti culturali,
sempre più frequenti nelle nostre società multietniche.
La politica linguistica che
si sta attuando nelle università italiane oggi, a seguito della separazione
delle cattedre di lingua e letteratura straniere, terrà conto di questi nuovi
sviluppi nella didattica delle lingue?
C'è purtroppo il rischio che, nella riforma dei corsi di laurea in
lingue, non verrà acquisita né la prospettiva interculturale (la
"rivoluzione" degli anni '90) né quella socioculturale (la
"rivoluzione" degli anni '80).
C'è il rischio, cioè, che la politica linguistica universitaria rimanga
ancorata agli schemi ristretti di un uso puramente "strumentale" e
"asettico" della lingua, quelli ad esempio del "Portfolio
linguistico" proposto dal Consiglio d’Europa.
Va ricordato che il
Portfolio è frutto della riflessione linguistica, di stampo pura-mente
comunicativo, promossa dal Consiglio negli anni '70; mira ad attestare solo
quelle competenze "strumentali" necessarie per il libero movimento
dei lavoratori all'interno della EU.
Bisogna anche tener presente che, negli anni '70, i lavoratori migravano
da un paese europeo ad un altro per svolgere mansioni prevalentemente
esecutive, donde l'ispirazione puramente comportamentista del Portfolio.
Oggi, invece, con la
terziarizzazione spinta e con la globalizzazione anche dei compiti creativi e
manageriali, il mondo del lavoro chiede ciò che il mondo della cultura e della
politica hanno sempre preteso dai corsi di laurea in lingue: la formazione di
mediatori interculturali capaci, in lingua, di creare intese sentite. In questa prospettiva NON HA POSTO in un
moderno curriculum universitario di lingue il cosiddetto insegnamento
"strumentale" delle lingue.
Né può bastare un programma di studio che "arricchisca"
l'insegnamento "strumentale" delle lingue con insegnamenti
linguistici puramente teorici e descrittivi.
Un curriculum veramente al passo coi tempi si fonda, invece, su
insegnamenti che non siano né "pratici" né "teorici" bensì
le due cose insieme -- cioè, si fonda su insegna-menti che diano conoscenze
culturali "immanenti". Si
tratta d'insegnamenti, descritti nei convegni di associazioni come la IALIC e
la SIETAR, che preparano lo studente a saper interiorizzare i presupposti
culturali alla base dei "modi d'esprimersi" dei suoi futuri inter-locutori
e a saper usare questo quadro di riferimento per impostare i propri discorsi.