SSIS:
Glottodidattica II - Patrick Boylan - Riflessione - 10.5.01
Imparare una lingua come interiorizzazione culturale
Dal Cap.1 della tesi di
laurea in fieri di Laura Biancone, studentessa del Corso di Laurea in Lingue
e Letterature
straniere, Università
di Perugia, su "L'adattamento culturale come strategia comunicativa nelle
conversazioni in lingua"
(...) Tale prospettiva
sui processi cognitivi umani si è poi sviluppata in una coerente cornice
teorica, a cui ci si riferisce
come denominata Ccostruttivismo. Una differenza fondamentale con
l’interpretazione di Kelly può essere riscontrata, però, nell’enfasi
costruttivista sulla natura “non-cosciente” dei processi interpretativi umani. Mentre
Kelly sosteneva che gli individui impongono i propri schemi su degli eventi
privi di definizione, O’Keefe (1978: 5) ribadisce che "people erect
interpretive systems principally through communication with an accommodation to
the meaningful, pervasive, and enduring social world into which they are
born". O'Keefe, cioè, sottolinea l’importanza dell’attività
comunicativa per la scoperta delle regole secondo le quali si attuano
scelte comportamentali appropriate. (citazione fondamentale: spiega perché
bisogna insegnare lingue soprattutto come tentativo di mettersi in relazione
con una comunità di cultura diversa, non solo come grammatica né inizialmente
come grammatica. La grammatica serve
come riepilogo di esperienze comunicative riuscite.)
Numerose ricerche
sperimentali (ad esempio Clark & Delia, 1977; Delia & Clark, 1977;
Delia et al., 1979a; Delia et al., 1979b) hanno dimostrato che
cambiamenti nella percezione sociale di bambini d’età compresa tra i sei e i
dodici anni, riflettono progressive trasformazioni nel sistema delle loro
strutture cognitive. Ogni individuo sembrerebbe sviluppare un sistema di
costrutti interpersonali nei quali vengono ordinate le caratteristiche
dell'interlocutore (aspetto, comportamento, espressione), fino a formare degli
schemi interpretativi stabili. Con il formarsi di tali schemi interpretativi
gli individui sembrano sviluppare un comportamento cosciente nell’attuare
scelte comunicative e adattare i propri messaggi di volta in volta a seconda
del soggetto con cui si trovano ad interagire. Infatti, è grazie a questi
schemi che è possibile formulare dei giudizi sulle caratteristiche
dell’interlocutore che sono rilevanti nello scambio comunicativo. Da questi
studi sulla capacità di adattare degli appelli persuasivi ad ascoltatori
diversi in maniera efficace, i costruttivisti hanno definito il processo di person-centered communication, quale
esempio di comunicazione sofisticata, e person-centered
messages, quali ‘messages which reflect an awareness of and
adaptations to subjective, affective and relational aspects of the
communication contexts’ (O’Keefe & Delia, 1982: 145).
La ragione dell’interesse
rivolto a questo approccio risiede sicuramente nella convinzione che person-centered messages siano più
efficaci (Burleson, 1989). Una serie di studi sui messaggi di conforto
(Burleson, 1982) ha dimostrato che persone che utilizzavano strategie
“person-centered” erano (a) percepite come più sensibili e, di conseguenza, più
efficaci nel trattare l’angustia emotiva altrui; (b) valutate più positivamente.
La capacità di
rappresentare le caratteristiche e la prospettiva di un ascoltatore gioca un
ruolo centrale anche nella costruzione di messaggi persuasivi. La comunicazione
strategica si propone di suscitare determinate reazioni nell’ascoltatore e, di
conseguenza, efficaci scelte strategiche dipendono dalla capacità del
comunicatore di inferire e predire le possibili reazioni dell’interlocutore a
strategie alternative (O’Keefe & Delia, 1979).
Da queste considerazioni,
siamo in grado di intuire che più due soggetti hanno in comune, più la
comunicazione sarà efficace. Infatti, maggiore è la sovrapposizione delle loro
percezioni della realtà, conoscenze, credenze, valori culturali, maggiore è il
numero di predizioni che saranno capaci di compiere riguardo agli intenti che
guidano i loro comportamenti.
Eppure, un abile
comunicatore deve essere in grado di formulare efficaci listener-adapted messages anche quando non
ha molto in comune con il proprio ascoltatore. Egli deve sviluppare delle buone
capacità di ascolto, di percezione e di interazione. Solo attraverso di esse è, infatti,
possibile riuscire a raccogliere le informazioni necessarie a comprendere i
valori culturali che l'altro esprime mentre parla, sia attraverso ciò che
dice, sia attraverso il modo in cui lo dice (i verbi, i sostantivi, le espressioni che
usa), ma anche sia tramite il suo atteggiamento non
verbale. In questo modo, durante l’interazione, possiamo ipotizzare i valori
esistenziali e le motivazioni contingenti del nostro interlocutore e,
introiettandoli, sviluppare sviluppiamo un atteggiamento empatico, che ci permette di
conoscere l'altro e di “metterci nei suoi panni”, di provare ciò che lui prova
e, quindi, di comprendere come è opportuno agire nei suoi confronti. Saper
comunicare consiste, quindi, nello stabilire un ponte verso il mondo del
ricevente.
L’empatia è un processo
alquanto sofisticato, in quanto coinvolge una specie di “doppia coscienza”. Il
comunicatore competente deve essere in grado di agire in maniera naturale e
spontanea e allo stesso tempo osservare ed analizzare gli elementi che vengono
utilizzati nella comunicazione. In pratica, deve agire come un buon attore,
che interpreta un personaggio e si comporta in maniera conforme al suo ruolo
nel mondo immaginario dell’opera teatrale. (ASSOLUTAMENTE NO! Alla lunga chi recita può venir scoperto e i membri dell'altra
comunità non gli perdoneranno mai la falsità, perché si sentiranno presi in
giro proprio sulla loro parte più intima, cioè la loro cultura. Non bisogna insegnare a recitare, dunque,
bensì a cambiare atteggiamento, ad accettare provvisoriamente il sistema
di valori dell'altro, ad introiettarli, a mettersi realmente nei suoi panni e
poi, solo allora, agire spontaneamente.
C'è, del resto, una scuola di recitazione teatrale che fa proprio
questo lavoro: il metodo Stanislavski ripreso da Lee Strasberg (Actor's Studio). Insegna che si recita meglio quando si cerca di essere se stessi,
non di recitare -- ma a patto di aver cambiato se stessi e di aver scoperto in
sé, e aver lasciato fiorire, i germi motivazionali alla base del comportamento
del personaggio che bisogna "recitare". C'è naturalmente la scuola opposta, difesa nel '700 da Diderot
in un famoso saggio, quello che
stai di-cendo tu ovvero "bisogna recitare osservando e analizzando i
comportamenti da imitare". Ma
questa scuola produce, a mio modo di vedere, solo istrioni come Gassman (con
tutto rispetto) che sono popolari solo presso coloro che accettano (anzi,
vogliono) che venga esaltato il carattere convenzionale del teatro (vedi il
teatro orientale, con il quale la commedia dell'arte ha molto in comune). Ma questo secondo pubblico -- quello che
apprezza la recita come recita -- non esiste nei negoziati
internazionali, salvo forse in determinate culture orientali, quindi recitare
nella comunicazione interculturale è solo controproducente.) Questo gli consente di comprendere come
l’altro percepisce ed interpreta la realtà, senza però abbandonare la sua
visione personale della stessa. Egli non cancella il proprio self, ma lo mette temporaneamente da
parte, per poter accogliere dentro di sé la personalità e la cultura
dell'altro. (questo sì) Questa
strategia comunicativa, che possiamo definire con termini diversi, quali rhetorical sensitivity, taking the role of the other,
identification, perspective-taking, self-monitoring, audience awareness,
listener adaptation, corrisponde a quello che tutti noi
inconsciamente facciamo in innumerevoli situazioni comunicative quotidiane. (attenzione, si tratta di 7
cose simili ma diverse). Un esempio calzante sono i casi di
“code-switching” - come quando cerchiamo in modo giocoso di convincere un
bambino a mangiare (baby talk), o quando delicatamente chiediamo ad un
professore di portare all'esame il programma dell'anno precedente - con i
quali ci avviciniamo al nostro interlocutore per incontrarlo sul suo piano
linguistico-culturale. (code-switching? Per favore, se fai soltanto il
code-switching, non t'intenderai mai bene con un bambino. Quando giochi davvero bene con un bambinio,
non imiti nessun codice linguistico diverso.
Diventi bambina. Di conseguenza,
il tuo code tende a switchare automaticamente.
Quindi -- e qui ribadisco la mia opposizione alla tesi di Diderot --,
non devi cercare coscientemente di switchare il tuo codice, bensì di accettare
provvisoriamente una serie di valori diversi da quelli che ti guidano
normalmente: vale a dire, i valori dei bambini con i quali vuoi giocare. Se riesci davvero a dimenticare il tempo, a
metterti per terra sporcando i jeans nuovi senza pensarci due volte, a vivere e
ad esibire passioni che normalmente tieni sotto freno, persino a trovare
interesse in cose che normalmente considereresti banali, come per esempio
scoprire per quanto tempo puoi trattenere il respiro e se riesci a battere gli
altri bambini in questa prova, scoprire cosa fa un trenino quando urta una
matita messa sui binari a mo' di albero caduto... se riesci davvero a fare tutte queste cose, dicevo, e a sentire
per un momento come tuoi i valori sottostanti attività come quelle appena
descritte, allora il tuo codice linguistico cambierà automaticamente e nella
misura giusta. Non parlerai né il
linguaggio affettato degli adulti che simulano interesse per i bambini, né
necessariamente il linguaggio degli altri bambini, perché in fondo hai studiato
più di loro. Ma piuttosto userai un
linguaggio tuo personale che verrà percepito dagli altri bambini come consono
al loro perché procede dalla stessa visione del mondo. Ebbene, quando parli +autenticamente una
lingua straniera, succede esattamente la stessa cosa.) L’abilità nel comunicare risiede proprio
nello sviluppare tale strategia d’identificazione e nell’impossessarsene a
livello cosciente.
Per riuscire in questo scopo è necessario resistere alla nostra tendenza egocentrica di definire l’esperienza altrui secondo i nostri termini. Vale a dire che dobbiamo sospendere la nostra visione del mondo prima di riuscire ad accogliere quella dell’altro. Solo a questo punto, dopo aver annullato il filtro attraverso il quale le nostre esperienze passate ci influenzano nell’interpretazione dell’esperienza presente, possiamo fare nostra la percezione dell’altro, i suoi schemi cognitivi, i suoi valori esistenziali, i suoi stati emotivi, e via discorrendo. (…)