©1980 Patrick Boylan, University of Rome "La Spaienza": Published as: Boylan, Patrick, (1983) 'L'apporto dell'antropologia linguistica all'insegnamento delle lingue straniere" [The contribution of linguistic anthropology to the teaching of foreign languages], in: Gruppo di Lecce (a cura di / eds.), Lingua e Antropologia [Language and Anthropology], Collana SLI (Società di Linguistica Italiana) n. 21, Bulzoni, Roma, pp. 497-509.   In Internet: http://tinyurl.com/boylan1980

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L'apporto dell'antropologia linguistica
all'insegnamento delle lingue straniere.

Patrick Boylan (Roma)



Si può studiare una lingua straniera per diversi motivi, donde la diversità dei metodi e dei risultati. Distinguiamone quattro (peraltro non antitetici):

1) il desiderio di vedere rispecchiarsi, in ciò che sembrava diverso e alieno (cioè la lingua straniera), le "leggi dello spirito umano” (Gentile, 1922).Questo traguardo, tipicamente idealista, è quello prefisso dai metodi tradizionali: la lingua straniera viene calata in un sistema grammaticale perlopiu latinizzante; ci si ingegna a spiegare razionalmente le numerose anomalie; si mira al conseguimento, non di conoscenze pratiche, ma di un solido bagaglio culturale, appunto, di stampo idealista dove il relativismo della antropologia linguistica ha poco posto (v. p. e. Grasso e Bottolla 1958).

Il desiderio di quintessenziare la realtà multiforme di una lingua sta anche alla base della linguistica chomskiana (v. Bernstein 1970, Parisi e Castelfranchi 1975), dei corsi pratici d'inglese d'ispirazione chomskiana (v. Ruhan e Boylan 1978 e Ciliberti 1978) e delle sistemazioni delle lingue diverse dall'inglese negli schemi strutturali elaborati per la descrizione o per l'insegnamento dell'inglese (v. p. e. Delehanty 1971); ne consegue che neppure questi approcci "neo-idealisti" dedicano molta attenzione ai fenomeni etnolinguisti;

2) il desiderio di poter adoperare la lingua straniera per "cavarsela" all'estero, per "leggiucchiare" libri tecnici o documenti commerciali, per "scambiare quattro parole" con eventuali ospiti stranieri, ecc. Questo traguardo viene raggiunto con i collaudatissimi metodi diretti praticati in molte scuole di lingua private. Per facilitare l'apprendimento degli schemi interattivi basilari, la lingua dei dialoghi e degli esercizi orali viene ridotta alla sua ossatura strutturale. Essa diventa al limite una lingua senza patria, una specie di Esperanto che pertanto dà poca presa a considerazioni etnolinguistiche: le frasi che la compongono sono di regola semplici e logiche, colorite talvolta con qualche idioma, ma banali; le situazioni evocate sono prevalen-




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temente universali e pertanto neutre ("all'aeroporto”, "all'albergo", "la domenica in campagna", "guardando la TV la sera", ecc.)1;

3) il desiderio di capire cosa significa 'parlare' o 'scrivere'; il desiderio di poter comunicare qualcosa dei propri pensieri e sentimenti a persone 'diverse', maneggiando in modo appropriato la lingua straniera. Questo traguardo, di altissimo valore formativo e culturale, colloca l'insegnamento di una lingua straniera al centro dei processo detto 'educazione linguistica'; tuttavia, non consente - se non di sfuggita - lo sviluppo di analisi etnolinguistiche durante le fasi iniziali dell'apprendimento.2

Infatti. per necessità didattiche, questa impostazione fa praticare un linguaggio senz'altro ricco e autentico, ma in situazioni scelte per mettere in risalto certe dinamiche psico-sociolinguistiche generalizzabili in universali (v. il "notional/functional syllabus" del Consiglio d'Europa), a scapito delle dinamiche etnolinguistiche che caratterizzano le situazioni in quanto alienigeni (v. l'etnografia del discorso di Hymes 1962). Inoltre, la giusta importanza data all'acquisizione di conoscenze produttive (tramite le composizioni orali, la redazione di fumetti, le improvvisazioni e drammatizzazioni originali) e all'uso della lingua per esprimere ciò che si sente realmente (nelle microconversazioni, durante certi lavori di gruppo, nelle lettere scritte a de-




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stinatari reali) fa sì che l'impostazione di molti discorsi venga determinata più dalla forma mentis di un gruppo di stranieri - cioè la classe - che da quella di una comunità di informatori nativi - cioè gli autori degli esercizi. Quindi al limite, più (soggettivamente) reali e genuini sono gli atti comunicativi praticati dagli studenti in classe e meno autentici sono questi atti rispetto all'uso della lingua nella cultura di origine.3

Per non essere frainteso, aggiungo che l'impostazione psico-sociolinguistica sopraindicata, per limitata che sia, è più che accettabile – anzi, è generalmente consigliabile – durante le fasi iniziali dell'apprendimento di una prima lingua straniera. E ciò perché occorre una esercitazione reale (e non gratuita) per assicurare una autentica educazione linguistica – cioè, l'acquisizione della capacità di collegare forme linguistiche al flusso interiore di pensiero e sentimento –, in modo che lo studente capisca cosa sia una lingua, cosa significhi corminicare.4

Solo allora si può tentare di individuare e di situare, con qualche rigore, i fatti etnolinguistici 'devianti' della lingua studiata ('devianti' perché non direttamente collegabili al mondo etnolinguistico dello studente) e in fine di ricostruire un metalinguaggio etnico 1 a partire dall'intero sistema linguistico straniero, compresi quei fatti che si pensava inizialmente di aver capito pienamente.




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Si tratta di un processo che oltrepassa di gran lunga i tre anni d'istruzione media, anche se il nuovo Programma ministeriale per la Scuola indica tra gli "obbiettivi dell'insegnamento della lingua straniera nel quadro dell'educazione linguistica” la effettiva "presa di coscienza dei valori socioculturali... tramite la lingua stessa".

Eppure il Programma ministeriale, nella frase appena citata, individua una importantissima fonte di motivazione allo studio delle lingue che è certamente presente in molti ragazzi (desiderosi di sistemare i fatti del mondo esterno nella loro complessità e diversità: donde le raccolte di figurine, di francobolli, di monete, di bandiere straniere, ecc.) e in molti giovani (desiderosi di uscire dagli schemi mentali del proprio ambiente per abbracciare il diverso) e che non si può ignorare né accontentare con nozioni storico-geografico-letterarie o con aneddoti turistici. Si tratta del quarto motivo che può indurre allo studio di una lingua straniera, tra quelli che abbiamo voluto individuare:

4) il desiderio di conoscere un'altra civiltà nelle sue differenziazioni intraducibili e pertanto incarnate solo nelle realizzazioni verbali (nella parole) degli indigeni nonché nei sistemi non-verbali tipici della civiltà in questione (vedi la discussione sull'ipotesi Sapir-Whorf in Hymes 1964 e Boas 1966: pp. 288 e 636).

In pratica si tratta di imparare, oltre la lingua di quella civiltà, i codici etnolinguistici e comportamentali sottostanti al suo uso effettivo. Solo allora possiamo comunicare con un indigeno, capendolo in pieno e dandogli l'impressione di parlare e la sua lingua e il suo linguaggio, cioè di "pensare" come lui (Frake 1964).

Questo traguardo è chiaramente il più ambizioso dei quattro, e si raggiunge di solito unicamente attraverso un soggiorno prolungato all'estero, dove 'fatti linguistici' e 'fatti culturali' vengono vissuti nella loro unicità. Ma il soggiornare spesso non basta.

Senza una adeguata preparazione 'antropologica', lo studente che soggiorna all'estero a scopo di perfezionamento linguistico può trovarsi in difficoltà, sia per quanto riguarda il superamento di resistenze di carattere psicologico, sia per quanto riguarda la corretta 'lettura' (percezione e ricostruzione) dei fatti etnolinguistici. Anzi, si può affermare che il successo del soggiorno all'estero è strettamente legato al tipo di insegnamento linguistico che lo studente ha ricevuto prima di partire:




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e si tratta del primo tipo elencato, quello idealista o neo-idealista, i fatti etnolinguistici tendono a n o n e s s e r e p e r c e p i t i oppure ad essere percepiti come 'stonature' o noise, vale a dire anomalie fastidiose da accantonare;

se si tratta dei secondo tipo di studio elencato, cioè i metodi diretti semplificati, i fatti etnolinguistici possono benissimo essere individuati e immagazzinati, ma meccanicamente, senza percepire in pieno né il loro significato immediato legato alla situazione né il loro significato etnologico legato alla cultura del paese; perciò lo studente è tendenzialmente capace di riutilizzare quel fatti come parte del suo repertorio, ma quando li riutilizza egli corre il rischio di 'stonare';

se si tratta del terzo tipo di studio, denominato 'educazione linguistica preliminare', i fatti etnolinguistici tendono ad essere percepiti nella loro specificità inerente alla situazione, ma non nella loro generalità o sistematicità etnologica; il carattere peculiare dei fatti che trascende le singole situazioni viene considerato parte del folklore del paese; lo studente lo imita per gioco, col tempo per istinto, ma non consapevolmente (proprio come molti nativi parlanti).

Per poter capire il messaggio etnologico sottostante ai costrutti linguistici caratterizzanti, lo studente intenzionato a soggiornare all'estero avrebbe bisogno di una formazione linguistica più completa – appunto, il quarto tipo elencato. Dove lo trova?

La sede naturale potrebbe essere la Scuola Superiore: gli studenti a quell'età si sentono vicini al momento in cui potranno viaggiare e incontrarsi/confrontarsi con 'gente nuova',5 il presupposto motivazionale c'è. Purtroppo molti presupposti materiali non ci sono, il che permette solo l' a v v i o di una formazione linguistica sistematica a fondo antropologico. Di diritto e di fatto, il compito di assicurare una compiuta formazione linguistica (quindi anche etnolinguistica) nelle varie lingue spetta ai singoli Istituti universitari di lingua straniera dove, infatti, qualche docente insegna la letteratura in un'ottica anche antropologica. Ma si tratta solo di qualche docente e solo della letteratura. Ora, sembra estremamente riduttivo limitare la conoscenza di una lingua e quindi della We1tanschauung linguistica di un popolo a ciò che possono rilevare i 'fatti linguistici' prodotti da una sola casta, i letterati, per ricco e profondo che sia il suo uso monodirezionale della lingua.




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Naturalmente, l'impostazione prevalentemente letteraria data all'insegnamento universitario delle 'lingue vive' non è un caso; a parte la sua rispondenza ad una certa concezione delle parole 'cultura' e 'civiltà', essa ricalca fedelmente l'impostazione necessariamente filologico-letteraria data allo studio delle 'lingue morte', per le quali non si hanno vaste quantità di reperti linguistici minori collocabili in situazioni interattive né la possibilità di 'vivere' la lingua, sperimentando forme linguistiche quale parlante o osservatore per appropriarsele.

Si delinea pertanto chiaramente l'apporto significativo che potrebbe dare lo studio dell'antropologia linguistica, applicata alle lingue vive attualmente insegnate nelle università, per approfondire la conoscenza di quelle lingue. Non sfugge neppure il contributo che tale studio potrebbe dare, di riflesso, alla creazione di nuovi materiali didattici destinati alle Medie, per aiutare gli insegnanti di lingue a far fronte, almeno parzialmente, all'impostazione 'socio-culturale' estremamente ambiziosa prescritta dal nuovo Programma di Lingua Straniera.


* * *

Ora, come potrebbe svolgersi in Italia, nel contesto delle attuali strutture universitarie, un lavoro di ricostruzione etnologica di fatti linguistici interattivi, raccolti in loco e cioè all'interno di n'autentica comunità alloglotta?

Per primo si pone la necessità di trovare, con riferimento alla lingua di cui gli studenti-ricercatori desiderano osservare il funzionamento, un gruppo di parlanti nativi costituitosi in comunità alloglotta avente sufficienti caratteristiche di stabilità e di omogeneità etnica. A titolo di esempio, i soldati semplici di certe caserme americane in Italia potrebbero benissimo costituire comunità del genere, in quanto per via dei meccanismi dell'arruolamento volontario e dei trasferimenti, si possono facilmente creare nelle caserme sottogruppi omogenei dal punto di vista della provenienza sociale e geografica; in tali sottogruppi, dopo un certo periodo di permanenza, vengono a galla i comportamenti e le usanze linguistiche determinati dai 'miti collettivi' che ogni membro del gruppo porta dentro di sé. Invece, la colonia di profughi russi a Ostia (Roma) oppure gli studenti di lingua araba che convivono in certe residenze universitarie in Italia, potrebbero costituire – anziché autentiche comunità alloglotte – raggruppamenti casuali, transitori e etnicamente non omogenei, assai poco interessanti al fini di un'indagine et-




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nolinguistica. L'équipe di ricercatori dovrebbe pertanto comprendere un 'informatore' (o specialista nella lingua e della società di provenienza del gruppo alloglotto che si vuole studiare) che possa valutare fino a che punto il gruppo costituisce n'autentica comunità.

In secondo luogo, si pone la necessità da parte degli studenti e docenti ricercatori facenti parte dell'équipe di acquisire preventivamente un certo bagaglio di carattere,

sia etnografico (bisogna sapere come osservare, come annotare, come decodificare i comportamenti e utterances; bisognerebbe sapere inoltre come integrarsi nel gruppo sottoposto ad osservazione, senza provocare comportamenti e discorsi non abituali),

sia linguistico (in particolare, occorre una spiccata capacità di comprensione orale) e paralinguistico (vedi le considerazioni su gestures, posture, eye-contact, small group ecology, etc. in Laver-Hutcheson 1972).



Per quanto riguarda la preparazione etnografica, l'équipe dovrebbe potersi avvalere della consulenza di un etnografo con esperienza di raccolta di dati in loco. In assenza di ciò si può ricorrere alla lettura di testi come Garfinkel 1967 e Slobin 1967 e alla partecipazione ad un regolare corso di etnologia.

Per quanto riguarda la preparazione linguistica, si suppone che gli studenti, che partecipano alla ricerca siano quadriennalisti della lingua parlata dal gruppo alloglotto. Difatti, l'utilità di una ricerca del genere è proprio

quella di aiutare i laureandi in una determinata lingua straniera a perfezionare le loro conoscenze di quella lingua (capacità di capire e riprodurre utterances in quella lingua, in situazioni interattive, sfruttando gli impliciti valori psico-socio-etnolinguistici) ed a trarre il massimo beneficio dai loro eventuali soggiorni all'estero (capacità di osservare ed assimilare criticamente modalità 'aliene' d'interazione sociale). Ora bisogna chiedersi: che tipo di formazione linguistica hanno ricevuto gli studenti dopo il secondo o terzo anno del Corso di Laurea in Lingue Straniere? Nella migliore delle ipotesi, hanno potuto seguire corsi di linguistica generale e applicata che danno rilievo alla sociolinguistica, alla pragmatica, alla paralinguistica, ecc. Inoltre, i loro corsi di lingua straniera (d'impostazione moderna come, p. e., l'insegnamento situazionale con un notional-functional syllabus) sono stati strettamente collegati con i corsi di linguistica così che l'insegnante di lingua, nel far acquisire agli studenti i meccanismi della L2 attraverso la simulazione di situazioni, ha potuto fare riferimento ai parametri sociolinguistici, paralinguistici, pragmatici, ecc. impliciti nell'interazione simulata. Nella




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peggiore ma più scontata delle ipotesi, gli studenti hanno ricevuto una formazione prettamente filologica nella lingua quadriennale da loro scelta, con un'infarinatura di conoscenze 'pratiche' data al di fuori di, e spesso in contrasto con, l'orientamento culturale complessivo voluto dagli Statuti. Ma anche in questo caso, una ricerca etnolinguistica si potrebbe intraprendere, seppure su basi più modeste: la ricerca riguarderebbe, infatti, solo gli aspetti più superficiali e macroscopici delle interazioni osservate, annotate, decodificate e riutilizzate.



Vorrei rendere più concreto questo intervento, volto a postulare l'importanza dell'apporto dell'antropologia linguistica allo studio delle lingue straniere, accennando ad una esperienza da me intrapresa con un gruppo di studenti quadriennalisti d'inglese alla Facoltà di Magistero dell'Università di Roma.

Purtroppo, non ho potuto portare a termine il lavoro in quanto non riconfermato al mio incarico di 'lettore' al Magistero; il progetto può tuttavia servire ad esemplificare la metodologia e, inoltre, dimostra che – almeno sul piano materiale – è possibile intraprendere studi etnolinguistici in Italia, visti come complementi di un insegnamento 'vivo' delle lingue a livello universitario.

Il lavoro aveva lo scopo di ricalcare il celebre studio di C. 0. Frake sulle strategie linguistiche praticate dai Subanun (una tribù delle Filippine) per farsi offrire da bere in certe riunioni pubbliche. (How to Ask for a Drink in Subanun, American Antropologist, vol. 66: 1964) Il gruppo di ricerca consisteva in una decina di studenti d'inglese; chi scrive partecipava nella qualità di informatore. Il gruppo etnico costituitosi in comunità alloglotta in Italia consisteva in alcune famiglie del tipo WASP (cioè bianchi, di probabile origine anglo-sassone, protestanti) facenti parte della colonia diplomatico-finanziaria americana abitante una certa zona residenziale della periferia romana. E' da notare a questo proposito che una parte della colonia americana di Roma, pur essendo inserita geograficamente nella più vasta comunità cittadina, tende ad auto-isolarsi (e a mantenere intatta la propria identità culturale) attraverso l'utilizzazione esclusiva di una rete di servizi paralleli: nella capitale c'è, infatti, una scuola secondaria americana, una università americana, un ospedale americano, un giornale quotidiano americano, una libreria americana, una radio emettente americana, un cinema di lingua inglese, due chiese americane (una cattolica, una protestante), dei club americani e




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via discorrendo. In base a ciò, si poteva ipotizzare (e quale informatore ho potuto attestare) che le famiglie americane prese in esame possedevano una identità culturale intatta e, per via della loro provenienza nonché della durata dei contatti (abitavano in Italia da oltre un anno e mezzo e, essendo vicini di casa, si frequentavano regolarmente da circa lo stesso periodo) costituivano un sottogruppo etnicamente omogeneo e stabilizzato.

Il lavoro preliminare comportava studi sia antropologici/etnologici, per ricavare ipotesi e modelli sperimentali, sia linguistici. Infatti, per quanto riguarda quest'ultimi, ho ritenuto necessario, visto il livello di preparazione degli studenti, raccogliere campioni di scambi di battute in inglese utilizzati per farsi dare da bere e offrire da bere. Si tratta di campioni presi da romanzi, galatei, fumetti, sceneggiature, raccolte di barzellette, ecc., provenienti dall'America.

Lo studio preventivo di questi campioni doveva comportare l'osservazione e l'annotazione delle strategie linguistiche impegnate, le reazioni che tali strategie provocano, nonché il probabile ceto sociale degli interlocutori, la situazione in cui avviene lo scambio, il probabile bagaglio di presupposizioni e miti di ogni interlocutore, desumibile dalle sue battute, e via discorrendo. Scopo del lavoro preliminare, oltre a migliorare il livello d'inglese degli studenti, era quello di facilitare il lavoro di demarcazione e classificazione degli atti linguistici che gli studenti avrebbero poi dovuto fare in situazioni reali.

Il seguente brano, tratto dall'introduzione di Frake (traduzione mia), illustra il punto di partenza del lavoro e l'assunto linguistico di base:

"Nella tribù dei Subanun, non basta, per farsi offrire da bere [la bibita in questione è una specie di birra; possiamo considerarlo equivalente al cocktail in America] formulare una frase grammaticalmente corretta e traducibile in inglese come richiesta di birra. Se formuli correttamente la frase, i Subanun possono anche farti dei complimenti per la tua bravura nella loro lingua, ma senza darti da bere. Per parlare in modo appropriato, non è sufficiente parlare in modo grammaticale o in modo ragionevole: infatti, in certe situazioni, è normale dire un non-senso ... Ti serve qualcosa di più di una grammatica e di un vocabolario; hai bisogno di ciò che Hymes ha chiamato una etnografia del discorso."




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In quanto al punto di arrivo, ci eravamo proposti di arrivare a conclusioni altrettanto interessanti, seppure qualitativamente diverse, rispetto a quelle di Frake che ha riassunto il suo lavoro nei seguenti termini:

"La strutturazione dei discorsi legati all'atto di bere rivela, sul piano culturale, l'esistenza di schemi interattivi (in base a ruoli articolati attraverso gli appellativi, la conduzione delle discussioni e delle dispute, e l'esibizione di arte verbale). Le persone più abili nel farsi passare e nel tenere la bottiglia sono di fatto i leaders di quella società. Pertanto, quando abbiamo descritto le strategie per farsi offrire da bere nella tribù dei Subanun, abbiamo ugualmente descritto le strategie per farsi strada in quella società."


* * *


Ho già ampiamente illustrato i vantaggi f o r m a t i v i che avrebbe potuto dare una ricerca dei genere per gli studenti che vi hanno preso parte, e ciò indipendentemente dal valore scientifico (in termini assoluti) del loro 'prodotto finale', cioè del loro tentativo di ricostruzione etnolinguistica dei discorsi rituali di alcuni WASP–americani incentrati sull'atto di dare o di ricevere da bere.

Ma non vorrei minimizzare l'interesse p u r a m e n t e s c i e n t i f i c o che possono avere studi etnolinguisticì su campioni di situated interactive speech anche riguardo alle lingue etnologicamente vicine a noi (come quelle europee) e che riteniamo di aver già abbondantemente studiate dal punto di vista grammaticale, pragmatico, sociolinguistico e letterario.

Anzitutto, dalle ricerche etnolinguistiche in loco potrebbe scaturire una visione nuova e più completa, sia dell' a t t o 1 i n g u i s t i c o in sé, sia dei singolo atto linguistico quale prodotto di una determinata lingua e cultura: l'atto andrebbe situato non solo nella rete di intenzioni che gli interlocutori intessono tra di loro o nella rete di rapporti sociali che legano l'atto alla specifica situazione, ma andrebbe altresì collegato alla rete di miti collettivi che sta alla base di qualsiasi interazione sociale e al sistema concettuale collettivo di chi parla una determinata lingua (v. l'ipotesi Sapir Whorf). Esiste già una certa tradizione di studi di questo tipo, sia nel campo della grammatica (v. la linguistica contrastiva) che nel campo della letteratura (v. la letteratura comparativa); ma per quanto riguardano le indagini etnolinguistche di




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situated interactive speech, esse, con qualche eccezione, si sono finora limitate alle lingue e culture esotiche.

In secondo luogo, lo studio etnolinguistico in loco potrebbe gettare luce sul meccanismi con i quali si arriva a capire ed assimilare una forma mentis ed una Weltanschauung diverse dalle nostre, attraverso la partecipazione consapevole in situated interactive speech. Naturalmente come si è già detto, anche la filologia tradizionale esamina i meccanismi di comprensione e di assimilazione di una cultura aliena. Ma per tradizione, la filologia si rivolge solo a quella parte della forma mentis e della Weltanschauung di un popolo evidenziata dal testi scritti, per lo più letterari6; inoltre, essa ha elaborato modelli per l'acquisizione del linguaggio mediato e concettualizzato tipico del discursive thought o della creazione letteraria, mentre il linguaggio utilizzato in situazioni interattive ha un carattere immanente (in sostanza, esiste una 'grammatica' della lingua parlata in situazione, che la filologia tradizionale tende a trascurare); infine, ed è la differenza più ovvia, la filologia ignora i canali di trasmissione d'informazione tipici di situated interactive speech quali i gesti, le non-verba1 properties of speech, posture, eye-contact, small group ecology, ecc., nonché le dinamiche specifiche di situated interactive speech quali la ri-negoziazione di obiettivi, sequencing, phatic communion, ecc.

In terzo luogo, come ho accennato all'inizio di questa relazione, l'interesse scientifico negli studi etnolinguistici potrebbe avere un carattere anche applicativo. Nell'evidenziare come lo specifico etnico di un popolo si trasmette attraverso il suo uso del linguaggio in situazioni interattive, gli etnolinguisti potrebbero contribuire al miglioramento dei materiali didattici per l'insegnamento delle lingue straniere o addirittura all'elaborazione di materiali complementari capaci di sostituire, nella misura del possibile, l'osservazione diretta di una comunità di parlanti nativi.




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NOTES

l. La 'neutralità' delle situazioni (la quale riducendole fonti d'incomprensione e d'antagonismo tra culture diverse, facilita pure la vendita mondiale dei testi, è chiaramente 'neutrale' solo rispetto ai modelli culturali proposti dai ceti dominanti dei vari paesi occidentali industrializzati, produttori dei testi.

I testi completamente 'neutri' sono comunque al tramonto.

La nuova generazione di testi di lingua straniera, infatti, almeno per quanto riguarda i testi di inglese e di francese, tende verso una sempre maggiore autenticità e densità etnolinguistiche (pur nell'assenza di elaborazioni teoriche in merito). Ma tutto ciò che brilla non è oro: L. G. Alexander, autore di un nuovo corso "comunicativo” (Mainline, ed. Longman, London) ha ribadito al Convegno LEND sulla Competenza Comunicativa tenutosi a Venezia in Ottobre, 1978, che il suo corso d'inglese è stato concepito per dare ad un produttore giapponese di automobili, ad un distributore tedesco e ad un rivenditore italiano che utilizzano Mainline, le conoscenze necessarie per poter comunicare tra di loro in inglese. Ci ritroviamo, quindi, sempre in una 'terra di nessuno' etnica, tipica dell'Esperanto, se non nella scelta dei dialoghi perlomeno nell'impostazione degli esercizi. [TORNARE AL RINVIO 1.]

2. Vedi l'esposizione molto completa dell'"insegnamento di una lingua straniera come parte dell'educazione linguistica" in Destro et al. 1978. Vedi in particolare, alla p.6, le difficoltà di un'insegnamento etnolinguistico in un corso che mira all'educazione linguistica dei giovani. [TORNARE AL RINVIO 2.]

3. La drammatizzazione di situazioni autentiche e la 'simulazione', pur essendo due degli strumenti più importanti nel, repertorio dei docente di lingue, non offrono da soli una via di uscita dall'impasse. Appunto, perché sono finzioni, essi non assicurano il collegamento tra forme linguistiche e ciò che lo studente pensa e sente realmente: fanno sì che le parole vengano i m m a g a z z i n a t e ma non necessariamente a s s i m i 1 a t e (ciò dipende da quanto lo studente s'immedesima nel ruolo che recita).

D'altro canto, nella misura in cui la simulazione evoca concetti etnolinguistici radicalmente diversi, l'insegnante deve fornire una spiegazione (e quindi elaborare un metalinguaggio etnico a partire dagli elementi della lingua che gli studenti già possiedono) che rischia di sembrare gratuito o nozionistico a studenti principianti.

Si tratta, quindi, di saper graduare e integrare le tecniche della drammatizzazione e della simulazione, durante le fasi iniziali dell'educazione linguistica in lingua straniera.

Vedi al proposito George 1980 e Finocchiaro 1978. [TORNARE AL RINVIO 3.]

4. Per una discussione di questa definizione di "educazione linguistica" e le sue conseguenze didattiche, vedi Boylan in stampa. [TORNARE AL RINVIO 4.]

5. Per la maggior parte degli studenti, la prospettiva di viaggiare si rivelerà illusoria: vedi Delicone 1976; l'articolo suggerisce, poi, un'impostazione didattica alternativa per le classi in cui le prospettive di "contatti con l'estero" in un futuro immediato sembrano scarse o nulle. [TORNARE AL RINVIO 5.]

6. Fanno eccezione alla regola quei filologi, per esempio, che si occupano della dialettologia. [TORNARE AL RINVIO 6.]