12.12.1999   ©1999 - Patrick Boylan – patrickboylan.it

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In: Puglielli A. et al., Qui è la nostra lingua, CD-ROM pubblicato dal Dipartimento di Linguistica, Università di Roma Tre,
per conto dell'Assessorato alle Politiche Educative e Scolastiche del Comune di Roma, 2003.


 

La comunicazione interculturale nella scuola multietnica
 

Resoconto del  Seminario / Laboratorio  condotto da Patrick Boylan
nel quadro del corso di formazione "Qui è la nostra lingua",
organizzato dal Comune di Roma e dall'Università di Roma III
per docenti della scuola dell'obbligo con classi multietniche
Roma, 1999-2000
 
 

Introduzione

Con i due interventi illustrati qui di seguito, molto circoscritti nel tempo (due ore di seminario e un'ora di laboratorio), il docente si è proposto di incitare i corsisti a riconsiderare la nozione di "comunicazione interculturale" alla luce degli studi
- di antropologia culturale (cultura come "visione-del-mondo esistenziale"),
- di analisi conversazionale ("scambi linguistici asimmetrici") e, soprattutto,
- di etnometodologia ("la comunicazione come co-costruzione di valori").

Prima regola della comunicazione interculturale è il dettame socratico ("conosci te stesso"), requisito fondamentale per poter conoscere altro. Quindi, nel preparare gli interventi illustrati qui di seguito, il docente, come del resto ogni docente prima di iniziare un corso, si è posto il compito di mettere in chiaro i propri scopi ed i propri presupposti pedagogici e ideologici (indicati nel testo che segue). Inoltre ha cercato di immaginare i probabili bisogni formativi dei suoi interlocutori -- anche dal loro punto di vista -- nonché il loro background culturale e le loro abitudini espressive e linguistiche. Per motivi di spazio, queste considerazioni non appaiono nel testo che segue; comunque, la partecipazione dei corsisti, a cui si accenna, ne fornisce un riscontro indiretto. Infine, sulla scorta di tutto ciò, il docente ha elaborato un percorso che si può riassumere come segue:

Cliccare sulla parola in ogni scheda per vederne il contenuto.


Scheda 1.

Seminario



 
 
 
 

Scheda 2.

Laboratorio


 
 



 
 

Il Seminario

Primo intervento: La nozione di cultura

Prima di parlare della "comunicazione interculturale" bisogna chiarire cosa intendiamo quando usiamo i termini "comunicazione" e "cultura".

A turno i corsisti e il docente formulano le loro definizioni.

(Per vedere chi ha formulato le definizioni che seguono,
tenere il cursore per qualche istante sopra i punti interrogativi.)


"Un modo di vivere."

Il 65% dei corsisti.

"L''insieme di manufatti ed istituzioni."

Il 35% dei corsisti.

 "una particolare visione del mondo"
Il docente.

Nella formulazione suggerita dal docente, il termine "cultura" non viene usato per indicare "la produzione artistico-intellettuale" di un popolo e nemmeno per indicare "il modo di vivere" o "le istituzioni" o "i manufatti" ecc., bensì la visione-del-mondo esistenziale (in tedesco, Weltanschauung) che definisce ciò che è reale per quel popolo. Ogni popolo vede il mondo in una particolare maniera. Quella visione guida le sue scelte di rapporti familiari, di istituzioni giuridiche, d'abbigliamento, di manufatti, di opere artistico-intellettuali -- e questi prodotti, a loro volta, rinforzano la visione-del-mondo esistenziale che li ha ispirati, cioè danno "realtà" a quella visione. In conclusione, la cultura non è l'insieme di cose che caratterizzano un popolo, bensì la mentalità all'origine della produzione e della distribuzione di quelle cose.

Per rendere più concreta la nozione di cultura come "visione del mondo", la classe viene invitata ad esaminare da vicino le divergenze nella concezione dello spazio che caratterizza tre culture diverse. I corsisti devono cercare d'immaginare quale concezione dello spazio (e quindi quale concezione dei rapporti tra persone e cose) possono avere i bambini che crescono in tre diversi centri città: Algeri, Kansas City, Bologna. Prima, però, vengono esaminate le piantine del centro di ognuna di queste tre città.

I lettori di questo ipertesto possono anche loro provare a descrivere la Weltanschauung che viene favorita da rapporti spaziali nelle illustrazioni che seguono. In seguito, potranno cliccare su ogni piantina per leggere le conclusioni dei corsisti.

 
 

Cliccare...................................Cliccare.................................Cliccare
........................................................................................

ALGERI, centro                    KANSAS CITY, centro               BOLOGNA, centro__






Possiamo ipotizzare, dunque, che un bambino che nasce nel centro di Algeri, nell'imparare a camminare da un posto all'altro della Casbah, acquisti una visione seriale del mondo: cioè egli riconosce una serie di case, mercati, monumenti o altri punti di riferimento, anche senza riuscire a concepire l'impianto urbanistico complessivo. E del resto, l'impianto non ha una forma geometrica, e nemmeno un principio unificatore, "logico". L'impianto è semplicemente il prodotto (anche casuale) di tante storie. E', come si dice, una costruzione alogica.

Il bambino che vuole spostarsi da un posto all'altro a Kansas City, invece, acquisisce un senso geometrico di un mondo ordinato e razionale: per andare da un incrocio (poniamo, 1st Street e 1st Avenue) fino ad un altro (3rd Street e 4th Avenue), egli sa di dover andare 3 isolati verso nord e quattro isolati verso est. Non serve orientarsi per piazze (peraltro rare), può non badare ai luoghi storici (anch'essi rari) che incontra lungo il percorso.

Il bambino che gira per le strade di Bologna, come il bambino di Algeri, ha anche lui una visione seriale e "storica" dei posti che incontra ma, a differenza di questo, sfocia ogni tanto in grandi piazze. Le piazze furono, infatti, un'invenzione rivoluzionaria dell'urbanistica italiana all'epoca dei Comuni: furono luoghi dove il popolo, per la prima volta, poteva riunirsi e discutere democraticamente gli eventi della città o del quartiere (o semplicemente spettegolare e osservarsi a vicenda).
 

A questo punto viene proposto un esperimento mentale. La classe viene invitata a supporre, per ipotesi, che la forma mentis di ognuno di questi tre bambini sia stata determinata soltanto ed esclusivamente dai rapporti spaziali in cui il bambino è cresciuto. Quali potrebbero essere le conseguenze di un tale condizionamento sul rendimento scolastico? In maniera abbastanza uniforme i corsisti giungono alle seguenti considerazioni.

Si ipotizza che il bambino di Algeri -- ad esempio, in un racconto o in un tema svolto in classe -- avrebbe tendenza ad esprimersi in modo seriale. Egli avrebbe, dunque, un modo di ragionare che procede per eventi o per flash e che obbliga l'ascoltatore o il lettore a ricostruire la trama narrativa o la struttura argomentativa sottostanti. Questo modo di narrare è tipico di tutti i bambini, naturalmente, ma in questo caso potrebbe risultare più marcato.

Si ipotizza poi che i racconti e i temi del bambino di Kansas City potrebbero risultare piuttosto ovvi e scarni, almeno agli occhi di un insegnante italiano. Certo, l'assenza di dettaglio è frequente nei temi scolastici, specie quando manca la motivazione intrinseca alla scrittura (come nel caso dei temi imposti). Ma qui la semplicità dell'esposizione sarebbe senz'altro ipotizzabile.

Infine, per quanto riguarda il bambino bolognese, si ipotizza una forma mentis di segno opposto. Più somiglianti a frammenti di brani storici che a specifiche tecniche, le sue esposizioni procederebbero a salti -- come nel caso del bambino algerino -- ma con ampie digressioni qua e là (l'equivalente delle "piazze" in un impianto urbanistico alla bolognese). Nelle sue esposizioni, inoltre, ci sarebbe un maggior numero di accenni ai rapporti interpersonali.

Ora, se le ipotesi appena fatte fossero verificabili empiricamente, avremmo un riscontro concreto di come l'organizzazione spaziale in cui cresce un bambino può influire sul suo modo di pensare. Inoltre, avremmo individuato almeno un parametro -- il senso dello spazio -- che definisce la cultura di un individuo. Non solo, ma avremmo chiarito, tramite un esempio, come la cultura consiste in una visione-del-mondo esistenziale, ossia in una Weltanschauung, mentre ciò che chiamiamo di solito la cultura di un popolo -- le sue tradizioni o i suoi modi di fare -- costituisce solo il prodotto di una determinata forma mentis. Infine, ci ricollegheremmo all'antropologia moderna. Infatti, mentre gli antropologi di una volta definivano la nozione di cultura con lunghi elenchi di oggetti, gli antropologi moderni definiscono "cultura" semplicemente come il principio organizzatore del pensiero, degli affetti e della volontà di ogni comunità.
 
 

 

Cliccare sul libro per avere
- una precisazione importante

- alcuni cenni bibliografici


Per concludere il primo intervento, il docente mette in guardia contro i rischi della semplificazione a cui gli sperimenti mentali si prestano. Nel caso presente, è evidente che la forma mentis di un bambino NON viene determinata esclusivamente dai rapporti spaziali in cui cresce. Non si può dire nemmeno che la cultura -- tutt'intera -- di un individuo lo condizioni ineluttabilmente. Inoltre, va tenuto presente che le culture sono variopinte: una determinata città può avere una diversità di "culture urbanistiche" a seconda dei quartieri. Perciò è del tutto possibile che certi bambini di Kansas City siano assai più socievoli di un tipico bambino bolognese e assai più allusivi nell'esprimersi di un tipico bambino algerino.

In definitiva, le culture non dettano leggi: dettano le condizioni in cui gli individui cercano di elaborare i propri orientamenti e comunque solo in parte. Certo, queste condizioni, proprio in quanto condizionanti, producono una tendenza a conformarsi in un certo modo tra i membri di una determinata popolazione considerata nel suo insieme. Ed è la percezione di questa tendenza -- che può benissimo non caratterizzare affatto (o solo in parte) i singoli individui -- che i forestieri chiamano la "forma mentis" della popolazione.

Premesso tutto ciò, possiamo comunque asserire che tendenzialmente gli impianti urbanistici di Algeri, Kansas City e Bologna incoraggiano, nei bambini che crescono nel centro di queste città, visioni diverse dei rapporti spaziali e quindi dei rapporti interpersonali e oggettuali. Possiamo anche asserire che una certa gestione dello spazio urbanistico (disposizione delle strade, ecc.) conferma e rinforza la forma mentis che essa stessa contribuisce a creare: la gente vede rispecchiato nelle cose il modo di concepire il mondo che ha imparato dalle cose e, forte di questa conferma, trova il proprio modo di concepire il mondo "quello più naturale" e l'unico "giusto". Ma non sa dire il senso di ciò che vede. Il senso di una cultura, infatti, sfida l'etichettatura e la riduzione in categorie. Va colto soltanto con empatia. Chi non si lascia prendere, seppure per un istante, dalla cultura dei propri interlocutori, non coglierà mai il senso profondo della loro cultura o delle loro parole.
 
 
 



 
 

Secondo intervento: Rapporti con la didattica






Quali conseguenze derivano dalle precedenti considerazioni per chi insegna in classi multietniche?

A questa domanda i corsisti, riunitisi in cinque gruppi di cinque componenti ciascuno, riflettono per un quarto d'ora. Poi formano cinque nuovi gruppi, ognuno composto da un membro di ognuno dei gruppi originari. In questa maniera ogni nuovo gruppo può elaborare una risposta finale che sia il frutto della riflessione dell'intera classe. Le elaborazioni risultano di notevole spessore.

Tutti o quasi concordano che per insegnare (o semplicemente comunicare) ad un bambino di cultura diversa dalla propria sia fondamentale saper entrare nella sua mentalità. L'insegnante che fa questo salto cambia necessariamente comportamento:

non critica più come "illogico" il modo caratteristico di esprimersi del bambino (riconosce che quel modo è inadatto per farsi capire dalla maggior parte degli italiani, ma ne vede la logica interna);

riesce ad appropriarsi di quel linguaggio e ad usarlo nell'interloquire a tu per tu con il bambino (salvo usare la madrelingua del bambino, l'insegnante non può segnalare con maggiore concretezza una volontà di avvicinarsi a lui).

Creata un'intesa linguistica, dunque, diventa assai più facile per l'insegnante portare il bambino a voler imparare -- bene -- il modo di parlare che l'insegnante stesso usa abitualmente (l'italiano standard).

Come si vede, le risposte fornite dai corsisti sono acute e il docente del seminario esprime il proprio compiacimento al riguardo. Poi, nel tempo che rimane, egli propone un'utilizzazione molto più semplice, ma altrettanto utile, del concetto di cultura elaborato la volta precedente.

Prima, però, il docente formula una domanda per tastare il terreno (i lettori possono rispondere premendo su uno dei due riquadri qui sotto):


 

Ritenete voi che la disposizione dello spazio
in una tipica aula scolastica italiana sia


culturalmente marcata  e abbastanza condizionante?

culturalmente neutra o comunque poco condizionante?

(Cliccare su una delle due risposte.)







I corsisti accettano dunque, come ipotesi di lavoro, la tesi che la gestione dello spazio in un'aula scolastica condiziona i rapporti tra gli alunni, tra insegnante e alunni, tra gli alunni e gli oggetti e, non ultimo, tra gli alunni e le conoscenze impartite.

Infatti,

sedersi per terra in cerchio (come si usa ancora in molti villaggi musulmani) oppure

sedersi al banco -- ma in gruppi di quattro banchi sparsi nell'aula (come si usa in molte scuole americane)

implicano modi diversi di concepire sia lo spazio che il sapere. Nel primo caso il sapere è corale, nel secondo è frutto dell'attività di gruppi di ricerca indipendenti.

Dal momento che i corsisti riconoscono la tesi del condizionamento spaziale, non possono non riconoscere che, in Italia, l'esistenza di un certo tipo di banco e la sua disposizione nell'aula è necessariamente condizionante: essa trasmette la cultura scolastica italiana.

In questo modo la scuola "accultura" non solo gli allievi figli d'immigrati ma anche gli stessi alunni italiani. Infatti, tutti crescono in ambienti familiari in cui prevale una gestione dello spazio sicuramente meno costrittiva di quella che essi ritrovano poi a scuola. (A casa, per esempio, nessuno di loro deve rimanere seduto ad un tavolo, in maniera composta, per tutta una mattinata, può toccare tutte le persone intorno a loro, ecc.) Tutti, perciò, devono fare uno sforzo per abituarsi alla particolare visione del mondo che esprime la cultura scolastica italiana. L'allievo figlio d'immigrati si deve abituare a quella cultura in quanto italiana, l'allievo italiano in quanto scolastica.

Premesso ciò, il docente propone per l'incontro successivo (il laboratorio) di gestire la disposizione dell'aula secondo criteri culturali diversi da quelli italiani tradizionali. I corsisti potranno in tal modo sperimentare sulla propria pelle il concetto di cultura come visione-del-mondo esistenziale o Weltanschauung. Inoltre, impareranno un'attività didattica che potranno riutilizzare subito nelle loro lezioni a scuola: l'insegnamento della comunicazione culturale attraverso una diversa gestione degli spazi nell'aula.

Qualche corsista dubita della praticabilità della proposta: bidelli, colleghi e presidi tendono a non gradire spostamenti di mobili. Il docente ribatte che di regola le obiezioni cessano se l'attività viene presentata come sperimentazione interculturale. Qualche altro corsista teme l'indisciplina in aula se gli alunni escono dagli schemi e si siedono per terra alla musulmana o si siedono in gruppetti all'americana. Il docente sostiene che l'esperienza dimostra proprio il contrario: dopo un momento passeggero di esaltazione, gli alunni entrano nel gioco. Quando poi, finita la sperimentazione, dovranno tornare a sedersi nella maniera tradizionale, lo fanno addirittura più volentieri di prima: sentono che la loro "cultura" (quella che vivono a casa) ha avuto spazio e riconoscimento a scuola.
 
 
 

Il laboratorio:

"Una diversa gestione dello spazio"


 

Scopo dell'attività qui proposta è quello di verificare che gli alunni capiranno meglio i valori culturali insiti nell'arredo tradizionale di un'aula, solo quando avranno potuto sperimentare altre disposizioni di mobili.

I corsisti vengono invitati ad immaginare il senso dello spazio (e quindi i rapporti con persone e cose) di un bambino che si siede in aule arredate nei seguenti tre modi.
 
 

Anche il lettore è invitato a rispondere
ad alta voce,
poi a cliccare sul puntino arancione 
per vedere la risposta suggerita.
 
 


Aula A....................................Aula B....................................Aula C


Descrivere la disposizione dell'Aula A.......

Descrivere la disposizione dell'Aula B........

Descrivere la disposizione dell'Aula C........ 

Descrivere la cultura che l'aula A promuove....

Descrivere la cultura che l'aula B promuove....

Descrivere la cultura che l'aula C promuove....


 
 
 

Il bambino che si siede nell'Aula A vede un mondo ordinato -- come le strade a Kansas City -- ma che non favorisce la socializzazione o l'autonomia d'iniziativa (paragonare con lo schema C qui di seguito. Anzi, l'Aula A rinforza la gerarchia: quella del docente (seduto davanti) rispetto agli alunni, ma anche quella tra gli alunni stessi (i più bravi cercano di sedersi davanti, i cosiddetti "svogliati" dietro).

Il bambino che si siede nell'Aula B ha una visione più sociale della gestione dello spazio (come nelle piazze a Bologna), soprattutto se gli alunni sono liberi di sedersi con chi vogliono. Ma anche se lo spazio incoraggia il "confronto tra pari", i discorsi vengono sempre mediati attraverso l'insegnante (che vigila su tutto dalla sua posizione centrale). Non c'è vera autonomia d'iniziativa.

Il bambino che si siede nell'Aula C ha una visione più frammentata della gestione dello spazio (come nella casbah d'Algeri). Ciò facilita l'apprendimento dell'autonomia d'iniziativa e lo spirito d'équipe. Potrebbe rendere più difficile la disciplina e la discussione comunitaria a meno di non ricorrere a strategie compensatorie quali la nomina di un responsabile per ogni gruppetto, lo scambio di "ambasciatori" tra i vari gruppetti, ecc. In una variante della disposizione "C", gli allievi e l'insegnante si siedono per terra su delle stuoie (i banchi vengono allineati momentaneamente contro le pareti): ciò rende più agili e meno rumorosi gli scambi di "ambasciatori" tra gruppi e i momenti di lezione frontale (che richiedono che gli alunni si girino per vedere la lavagna).
 
 

I corsisti notano con sorpresa la mancata corrispondenza, nelle varie culture, tra i piani urbanistici illustrati nel primo seminario e le disposizioni delle aule appena illustrate. Per esempio, se le strade americane tendono ad essere allineate, i banchi nelle scuole (elementari e medie) americane tendono verso lo schema chiamato "Casbah". E' proprio per questa variazione sorprendente che le culture -- come del resto le personalità umane -- sfidano le etichettature semplicistiche: le culture sono sedimentazioni stratificate ed alogiche il cui senso è soltanto storico.

I corsisti vengono invitati a riformare i gruppi della volta precedente, per scegliere quale disposizione dello spazio adottare per la durata del laboratorio. Possono scegliere anche una disposizione di loro invenzione -- ad esempio, seduti ai banchi disposti in cerchio con l'insegnante in "periferia" oppure sdraiati per terra come gli allievi sacerdoti nell'antico Egitto o un'altra disposizione ancora.

Alla fine scelgono la variante dello schema C (seduti su stuoie in gruppetti di quattro).

Inizia l'attività didattica illustrata nella scheda qui sotto. Scopo dell'attività è quello di consentire ai corsisti di mettere in pratica le nozioni di accomodamento discorsivo (illustrate precedentemente da un altro docente dell'area antropologica), e nel contempo di dare ai corsisti la possibilità di provare sulla propria pelle se la diversa disposizione spaziale influisce positivamente o negativamente sul "rendimento" scolastico.

Le conclusioni appaiono dopo della scheda.
 
 
 
 

Progetto "Qui è la nostra lingua" • 14-22.10.99 • Patrick Boylan: 
Laboratorio sulla comunicazione interculturale

Scheda per l'attività didattica "Accomodamento discorsivo"
 

Riassunto delle tecniche di accomodamento
da utilizzare nel dare spiegazioni
ad un interlocutore che non conosce bene la lingua da noi utilizzata

Controllare:

    1. la nostra velocità (ma senza enfatizzare le parole o falsare l'intonazione);

  1. il nostro registro (sempre un italiano autentico e scorrevole, ma neutro ed interattivo - cioè libero da idiotismi o termini gergali e organizzato in piccole frasi che incitano l'interlocutore a contribuire all'elaborazione del concetto);

  2. il nostro grado di immedesimazione nel mondo linguistico-culturale del nostro interlocutore e quindi la nostra capacità di vedere le sue incomprensioni dal suo punto di vista;

  3. la nostra calma.


-------------------- Svolgimento dell'esercizio --------------------

Arredare l'aula secondo la VARIANTE della disposizione C (banchi e cattedra contro le pareti, fogli di giornali recanti la lettera F o I per terra, in funzione di stuoie);

chiedere agli "alunni" (ai corsisti) di procurarsi matite (o penne) e carta per fare un disegno;

dire agli "alunni" di sedersi in piccoli gruppi senza ordine: coloro che hanno studiato il Francese si siedono sui fogli segnati con la F, quelli che hanno studiato l'Inglese sui fogli segnati con la I; non più di 4 persone per ogni gruppo;

ogni gruppo sceglie un capogruppo, ossia la persona che parla meglio il francese o l'inglese;

distribuire ai capigruppo un foglio recante due disegni con la descrizione del contenuto di ciascun disegno in lingua francese o in lingua inglese;

il capogruppo legge la descrizione del primo disegno senza farlo vedere ai componenti del suo gruppo. Gli altri cercano di riprodurre il disegno seguendo le sue indicazioni. Il capogruppo deve cercare di adoperare le strategie efficaci di accomodamento. Gli altri componenti del gruppo possono interromperlo per fare domande quando non capiscono o per fargli notare che non sta usando una delle strategie di accomodamento indicate sopra;

il docente gira tra i gruppi, incitando i corsisti a criticare i loro capigruppo quando è il caso e registrando brani dei dialoghi tra capigruppo e corsisti, da far sentire a tutti in seguito;

dopo 3 minuti il docente ferma l'esercizio e chiede ai corsisti se percepiscono lo spazio (cioè il rapporto tra le persone e gli oggetti) in modo effettivamente diverso e, in tal caso, come; annota le risposte;

si riprende il lavoro: i capigruppo spiegano i disegni e i loro "alunni" cercano di riprodurli;

dopo 5 minuti il docente ferma l'esercizio e invita i corsisi a tirare le conclusioni tutti insieme.

--o--


 

Riflessioni sviluppate nei laboratori 14-22.10.99:

  1. Quasi tutti hanno vissuto la diversa gestione dello spazio in aula come espressione di una diversa "cultura" - se non proprio araba (delle scuole coraniche nella casbah di Algeri), comunque più orizzontale che verticale, più frammentata che unitaria, più autonomista che regolamentata.

  2. Tornare a sedersi sui banchi allineati sembrava a quasi tutti i corsisti una "costrizione"; quasi tutti, quindi, capiscono ora meglio il bambino - italiano o non - che si avvilisce subendo una tale gestione dello spazio.

  3. Quasi tutti i corsisti si sono convinti della tesi proposta dal docente: un allievo abituato alla gestione dello spazio "araba" o "bolognese" accetterà più volentieri la gestione dello spazio italiana tradizionale se ci saranno momenti di riconoscimento della dignità della propria cultura spaziale, facendola vivere a tutti gli alunni, anche se per un breve periodo di tempo.

  4. Pertanto, una classe multietnica, anziché rappresentare un ostacolo, può addirittura favorire l'integrazione di TUTTI i bambini, italiani e figli d'immigrati, nella cultura scolastica italiana. La cultura dominante, proprio perché viene relativizzata criticamente e consapevolmente, viene accettata più responsabilmente anche dai bambini italiani.

  5. Nella stessa maniera, i corsisti concordano che una scuola potrebbe trarre giovamento dalla presenza di alunni immigrati, non solo cogliendo l'occasione per sperimentare in classe la loro concezione dello spazio, ma sperimentando in classe TUTTI gli aspetti della cultura di questi alunni: cultura musicale (imparando le canzoni dei loro paesi), cultura geografica (facendo un confronto tra i loro paesi e l'Italia in termini di geografia fisica ma anche economica e demografica), cultura culinaria (scrivendo in classe le ricette dei loro paesi, chiedendo alle mamme italiane di preparare i piatti, assaggiando in classe i piatti cucinati e, infine, chiedendo un giudizio sull'autenticità dei sapori ai bambini che hanno fornito le ricette). Ciò può implicare un mutamento dei programmi ufficiali di educazione musicale o di geografia, ecc., e quindi richiede l'approvazione del Consiglio dei docenti come "sperimentazione". Di nuovo, i benefici di una tale sperimentazione sarebbero reciproci: gli alunni figli d'immigrati sentirebbero valorizzata la loro cultura; gli alunni italiani imparerebbero il concetto di cultura non soltanto sui libri ma "incarnato" in un compagno di classe che li fa cantare, mangiare, e percepire lo spazio in modo nuovo.

  6. Dal momento che assimilare veramente una lingua significa assimilare la cultura sottostante, queste attività di comunicazione interculturale favoriranno senz'altro l'apprendimento dell'italiano da parte degli alunni figli d'immigrati: sentendosi più accettati, saranno più disposti a "parlare l'italiano come un italiano".

  7. In quanto alle tecniche di accomodamento nei discorsi, i corsisti sono pienamente consapevoli che nelle comunicazioni tra insegnante e alunno immigrato va assolutamente evitato un uso storpiato dell'italiano per "facilitare" la comprensione. Vanno usate le strategie di accomodamento indicate qui sopra e, soprattutto, ogni comunicazione deve svolgersi come se l'insegnante parlasse ad un alunno italiano - semmai ad un alunno italiano stanco o distratto, a cui non è possibile fare discorsi lunghi e complicati e con cui bisogna usare frasi brevi e scandite, frasi che sollecitano risposte da parte sua come segno che sta seguendo, cioè frasi spoglie ma interattive e del tutto naturali e autentiche.

  8. Si è potuto constatare, ascoltando le registrazioni, come i capigruppo abbiano usato istintivamente le 4 strategie efficaci di accomodamento. I disegni prodotti dai loro interlocutori erano quasi tutti perfetti, quindi i capigruppo hanno saputo farsi capire perfettamente in lingua francese o in lingua inglese. Non solo, ma hanno saputo risolvere le incomprensioni linguisitche dei loro interlocutori con garbo, senza paternalismi nel modo di enunciare le sillabe, senza toni enfatici ed artificiosi, senza segni di esasperazione La bravura dei capigruppo è forse dovuta alla loro comprensione profonda delle difficoltà dei colleghi alle prese con una lingua straniera, avendo avuto loro stessi queste stesse difficoltà. Il problema ora è di saper far tesoro di queste conoscenze parlando con alunni immigrati alle prese con la lingua italiana. Questo potrebbe essere l'oggetto di un ulteriore laboratorio.

  9. Ci sono molte affinità tra il modo di instaurare rapporti gestendo uno spazio ambientale e il modo di instaurare rapporti gestendo un'interazione conversazionale. Entrambi traducono una visione del mondo esistenziale che, per quanto contraddittoria, esprime un senso storico.

  10. La cultura, come la lingua, è un modo di essere.

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Fine del saggio.
(Lo spazio sottostante contiene risposte indicative ai quesiti posti nel saggio.)



 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

SEMINARIO

AREA: Antropologia.
TITOLO: Comunicazione Interculturale.
DURATA DELLA LEZIONE: 1 ora.
OBIETTIVI: 
1.) Far confrontare la propria concezione della "comunicazione interculturale" con la nozione etnometodologica di "introiezione dei valori dell'altro".
2.) Far confrontare la propria concezione della "didattica attiva" con la pratica costruttivista di "sperimentazione ad hoc".
IMPOSTAZIONE: Interrogazione socratica.
CONTENUTI: Vedi più avanti "Il Seminario: Primo intervento" e "Secondo intervento".
SUSSIDI: Videocassette di studenti universitari che, in piccoli gruppi nell'aula, sperimentano alcuni metodi didattici, insegnandosi a vicenda le lingue.
REAZIONI: Partecipazione iniziale vivace; in seguito, agitazione davanti alle prospettive indicate dalla discussione (in qualche caso, cambiamento radicale dei propri modi di fare).
RISULTATI: Malgrado qualche espressione di perplessità, forte curiosità di tornare per sperimentare nel laboratorio le idee discusse.

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LABORATORIO

AREA: Antropologia.
TITOLO: Comunicazione Interculturale.
DURATA DELLA LEZIONE: 2 ore.
OBIETTIVI: Verificare le conclusioni a cui si è giunti nel seminario, cioè la visione della comunicazione interculturale come trasformazione del sé e della didattica attiva come sperimentazione ad hoc.
IMPOSTAZIONE: Sperimentazione empirica.
CONTENUTI: Vedi più avanti "Il laboratorio -- Una diversa gestione dello spazio".
SUSSIDI: Schede per fare una simulazione in aula sulla falsariga di uno degli esercizi visti nella videocassetta.
REAZIONI: Generalmente ricettivi, con qualche contestazione.
RISULTATI: Effettivo spostamento d'ottica nella maggior parte dei partecipanti; richiesta di ulteriori ore di seminario/laboratorio per proseguire.
 

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Algeri  -  Groviglio di strade che cambiano nome ad ogni incrocio;  un bambino impara ad usare luoghi "storici" per trovare la sua strada: mercati, ecc.

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Kansas City  -  Strade rettilinee costruite anche abbattendo i vecchi edifici.  Le "street" vanno dall'ovest all'est, le "avenue" vanno dal nord al sud.  Esse delineano isolati regolari.

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Bologna  -  Groviglio di strade come ad Algeri ma che sfociano su grandi piazze dove la gente del rione ama ritrovarsi. Un bambino impara ad orientarsi per piazze.

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Precisazione
(Per vedere le indicazioni bibliografiche, tenere il cursore sopra i libri.)

Questo confronto tra culture e scritture diverse s'ispira ai celebri schemi di Kaplan Kaplan R. B. (1966) 'Cultural Thought Patterns in Inter-Cultural Education'. Language Learning 1966; XVI/1,2: 1-20, integrati con le analisi urbanistiche di Benevolo Benevolo, L. 1982 Storia della città. Bari: Laterza e con alcune intuizioni di Montesqieu Montesquieu (1994 [1748]). L'esprit des lois. Paris: Éditions du Seuil. Va ricordato, però, che gli schemi di Kaplan sono stati fortemente criticati -- e a giusto titolo -- in quanto stereotipi etnocentrici. Ciò nonostante, essi vengono spesso citati - anche in questo intervento - perché rendono immediatamente chiaro la nozione di cultura usata dagli antropologi moderni Goodenough, W. (1964). 'Cultural Anthropology and Linguistics'. In D. Hymes (Ed.). Language Culture and Society. New York: Harper & Row, 36-40. In definitiva, gli schemi di Kaplan vanno considerati caricature suggestive ma non modelli scientifici.

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Le considerazione sviluppate precedentemente portano infatti a riconoscere che anche l'aula scolastica, in quanto spazio, condiziona i rapporti tra le persone e le cose e quindi esprime una particolare cultura.

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La disposizione di un'aula può apparire poco o per nulla condizionante agli insegnanti che stanno nella cultura scolastica "come un pesce nell'acqua" (il pesce si muove nell'acqua senza nemmeno accorgersi che essa esista o che stia esercitando su di lui una forte pressione per sorreggerlo). Ma per verificare quanto poco la disposizione di un'aula sia realmente "neutra", un insegnante non deve far altro che cambiare per una settimana quella disposizione, secondo le indicazioni fornite in seguito. Se tutto si svolge come prima, allora la tesi del condizionamento sarà smentita. L'autore sarà lieto di pubblicare le eventuali smentite, inviategli all'indirizzo e-mail (a tutt'oggi non gliene sono mai pervenute). 

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File davanti alla cattedra; regna la disciplina; lo spazio crea delle gerarchie

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Semicerchio "pseudodemocratico" (i raggi convergono pur sempre sulla cattedra).

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Sparsi nell'aula, gruppetti di 4 alunni seduti ai banchi. La cattedra non c'è o sta in un angolo.

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Il bambino che si siede nell'Aula A vede un mondo ordinato -- come le strade a Kansas City -- ma che non favorisce la socializzazione o l'autonomia d'iniziativa (paragonare con lo schema C qui di seguito. Anzi, l'Aula A rinforza la gerarchia: quella del docente (seduto davanti) rispetto agli alunni, ma anche quella tra gli alunni stessi (i più bravi cercano di sedersi davanti, i cosiddetti "svogliati" dietro).

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Il bambino che si siede nell'Aula B ha una visione più sociale della gestione dello spazio (come nelle piazze a Bologna), soprattutto se gli alunni sono liberi di sedersi con chi vogliono. Ma anche se lo spazio incoraggia il "confronto tra pari", i discorsi vengono sempre mediati attraverso l'insegnante (che vigila su tutto dalla sua posizione centrale). Non c'è vera autonomia d'iniziativa.

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Il bambino che si siede nell'Aula C ha una visione più frammentata della gestione dello spazio (come nella casbah d'Algeri). Ciò facilita l'apprendimento dell'autonomia d'iniziativa e lo spirito d'équipe. Potrebbe rendere più difficile la disciplina e la discussione comunitaria a meno di non ricorrere a strategie compensatorie quali la nomina di un responsabile per ogni gruppetto, lo scambio di "ambasciatori" tra i vari gruppetti, ecc. In una variante della disposizione "C", gli allievi e l'insegnante si siedono per terra su delle stuoie (i banchi vengono allineati momentaneamente contro le pareti): ciò rende più agili e meno rumorosi gli scambi di "ambasciatori" tra gruppi e i momenti di lezione frontale (che richiedono che gli alunni si girino per vedere la lavagna).

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