28.12.2005   ©2006 - Patrick Boylan – patrickboylan.it

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Pubblicato In: M. Arcangeli & A. Masi (a cura di). Formare nei paesi d'origine per integrare in Italia. Società Dante Alighieri, Roma, 2006, pp. 123-131.








La competenza interculturale
attraverso l'insegnamento comunicativo-culturale delle lingue



Patrick Boylan

Università degli Studi Roma Tre




Per "competenza comunicativa di base" in una seconda lingua (L2) s'intende, almeno secondo una certa tradizione sviluppatasi in Europa negli anni '70 e ancora influente, la capacità di realizzare atti linguistici (speech acts) contestualmente appropriati utilizzando un determinato inventario di nozioni e di funzioni, ossia quelle specificate nel notional/functional syllabus elaborato dal Consiglio d'Europa (Van Ek & Alexander, 1975) e poi implementate nei libri di testo più diffusi per l'insegnamento di ciascuna lingua comunitaria.  Proprio in quanto applicabili a tutte le lingue e quindi universali, queste nozioni e queste funzioni sono culturalmente aspecifiche (vedi Bettoni, 2001, tuttavia, per un inizio di apertura alla dimensione interculturale).


Ma fino a che punto si può considerare come comunicativamente competente il discente che padroneggia solo questi universali?  Prendiamo, per esempio, la nozione universale di assenso e, come funzione discorsiva (universale?) correlata, quella di indicare l'assenso tramite un'interiezione avverbiale: si, yes, oui...  Possiamo forse dire che un allievo tedesco che sa dire e capire questi tre avverbi padroneggia le nozioni di assenso nelle culture inglese, francese e italiana, nonché le loro relative realizzazioni conversazionali?  La risposta è ovviamente negativa.  Non solo l'allievo tedesco non sa cogliere e produrre le sfumature funzionali (ad esempio, l'opposizione oui/si in francese) e stilistiche (ad esempio, le varianti yes/yeah/yea/aye/yup... in inglese) ma, sopratutto, non sa gestire l'indicazione dell'assenso come componente di un evento comunicativo culturalmente connotato.  E' noto, infatti, che i cittadini tedeschi che soggiornano in Italia si lamentano spesso (Moneta, 2000) delle difficoltà a capire cosa intendano veramente i loro interlocutori italiani quando pronunciano i fonemi /sì/.  Solo col tempo scoprono che un "sì" secco è diverso da un "sì" strascicato (che può valere un "nì") o un "si" strascicato calante (che potrebbe essere ironico e quindi valere come "no") oppure un "sì" reiterato più volte rapidamente (che può segnalare soltanto un assenso di massima ma non operativo) o infine un “sì” senza marcatura intonativa (che può esprimere un consenso minimale oppure un semplice voler accontentare l'interlocutore senza impegnarsi in alcun modo).  Dire che tutte queste realizzazioni esprimono la “categoria universale di assenso" è assai riduttivo e in fin dei conti fuorviante.


Il metodo comunicativo nato negli anni '70 e che sopravvive ancora oggi risulta, dunque, nella misura in cui si basa su un syllabus di cosiddetti universali, assai più vicino di quanto non si pensa generalmente al vecchio metodo scolastico incentrato prevalentemente sullo studio della grammatica.  Entrambi gli approcci, infatti, considerano le L2 essenzialmente come sistemi semiotici di natura concettuale, squisitamente logici o comunque riconducibili a schemi logici universali e pertanto, ad un livello profondo, uguali tra di loro (e, in particolare, uguali alla lingua madre – la L1 – del discente). 

Ma se le differenze tra le lingue sono soltanto superficiali, in tutti i sensi del termine, svanisce la motivazione intrinseca principale per imparare le L2 – ovvero, la possibilità di arricchirsi intellettivamente e spiritualmente acquisendo una nuova visione del mondo o Weltanschauung.  Se tutti gli idiomi umani fossero semplici realizzazioni concrete di un unico syllabus nozionale/funzionale universale, tanto varrebbe sopprimerli ed adottare ovunque un'unica lingua, costruita al tavolino da quel syllabus e quindi con pretese universali, come l'Esperanto o l'Idiom Neutral.


La visione comunicativo-culturale dell'insegnamento linguistico, invece, si distacca radicalmente dall'impostazione appena descritta.  Considera ogni lingua come essenzialmente una disposizione complessiva ad esprimersi in una determinata maniera, ovverosia uno stato esistenziale acquisito attraverso la sedimentazione – sia nella psiche collettiva di una comunità sia nella psiche di ogni suo membro – dei valori e delle pulsioni che hanno alimentato gli eventi comunicativi vissuti che formano la memoria storica di quella comunità (e, a gradi diversi, di ogni suo membro).  Essendo configurazioni intenzionali, le lingue non sono in prima istanza, dunque, “sistemi semiotici” – e tanto meno “sistemi semiotici verbali”, come dimostrano i sordomuti che segnano con le mani e i neonati che parlano attraverso le espressioni facciali.  Ogni lingua è un cumulo di atti di voler dire storicamente e culturalmente determinati ed è, perciò, unica (cioè, essenzialmente diversa da ogni altra lingua), alogica, concettuale solo di riflesso, difficilmente classificabile e pertanto conoscibile a fondo solo sperimentalmente ed ermeneuticamente (attraverso l'empatia). 


Ne deriva che, in questa prospettiva, il lessico e la grammatica di una qualsiasi lingua descrivono non la lingua stessa ma le condizioni semiotiche, elaborate nel corso del tempo, perché essa possa manifestarsi verbalmente.  Infatti, per potersi realizzare concretamente in un evento comunicativo, ogni voler dire di ogni partecipante ha bisogno di plasmare qualcosa nell'ambiente, siano esse le parole di un repertorio verbale condiviso, le espressioni facciali ed i gesti di un repertorio corporale condiviso, gli spazi e gli oggetti che occupano lo spazio delimitato dal setting con i suoi codici prossemici (ad esempio, la distanza tra gli interlocutori, la disposizione delle sedie intorno al tavolo) e via discorrendo.  Ma, come si è detto, secondo la visione comunicativo-culturale delle lingue appena descritta, questi repertori non possono considerarsi l'essenza di una lingua in quanto essi sono configurazioni semiotiche (sistemi di segni, con significati concettuali) mentre le lingue, in senso stretto, sono configurazioni di intenzionalità (stati volitivi).


Una analogia forse servirà a chiarire questo punto.  Chi ama la musica sa che l'insieme di note musicali e di regole di armonia costituiscono solo gli accessori materiali della musica, ma non la musica stessa.  Vengono usati dal musicista per realizzare il suo intento musicale, ma la sua musica è la configurazione di quell'intento (che ha un suo significante esperienziale e un suo significato estetico), non gli oggetti materiali adoperati per renderla sensibile (che hanno anche loro un proprio significante, i toni, e un proprio significato, ossia le tonalità e le consonanze).  Il bambino che, costretto dai genitori, ha dovuto imparare le note musicali e le regole di armonia e che ha dovuto fare ore e ore di scale sul pianoforte, può non sapere affatto la musica (oltre a suonar male), come il bambino che impara tantissimi vocaboli e regole sintattiche e che si applica per ore e ore al laboratorio linguistico per soddisfare un'esigenza scolastica, può non sapere affatto la lingua straniera studiata (oltre a parlarla male).


Le regole grammaticali (come le regole dell'armonia), dunque, descrivono soltanto le condizioni di realizzazioni dell'espressione verbale (o musicale).  Inoltre, va precisato che costituiscono le condizioni sufficienti ma niente affatto necessarie: esistono infatti anche le diverse lingue dei segni con principi organizzativi in parte diversi da quelli delle lingue vocali, come – nel campo dell'espressione musicale – esistono le diverse musiche atonali e addirittura le musiche senza suoni, come le composizioni 4'33” di Cage e Con voce di Kagel.


Invece ciò che, in senso stretto, andrebbe chiamato “lingua” (o “musica”) è qualcos'altro, vale a dire, una delle seguenti alternative:


Per riprendere ora il filo del discorso iniziale, l'approccio comunicativo diffusosi negli anni '70 dello scorso secolo, è stato sì un passo in avanti rispetto ai metodi in voga all'epoca.  Alla vecchia analisi grammaticale applicata alla decodifica di testi scritti ("metodo grammaticale-traduttivo"), il nuovo approccio ha sostituito l'insegnamento anche induttiva della grammatica e la produzione di testi anche co-costruiti oralmente per dire qualcosa a qualcuno ("metodo comunicativo").  Ma oggi, per prendere in prestito dalla politica un nota espressione, questo approccio rivoluzionario ha "perso la sua spinta propulsiva".  Oggi buona parte degli "esercizi comunicativi" proposti nei libri di testo – ad esempio, gli esercizi di pair practice in cui a turni gli studenti si chiedono in lingua l'ora o recitano in lingua brevi dialoghi asettici del tipo "Dal giornalaio" – ci appaiono per quello che sono: rifacimenti degli esercizi di grammatica di una volta.  Infatti i discorsi generati in aula non provengono da un reale desiderio di sapere l'ora o di acquistare un giornale e di voler esternare questo impulso plasmando qualcosa nell'ambiente (suoni, gesti...).  I discorsi generati in aula mirano a soddisfare il docente realizzando determinate forme lessico-grammaticali “correttamente”.  Per quanto interattivi, contestualizzati e fino ad un certo punto finalizzati pragmaticamente (i tre pregi indiscussi degli "esercizi comunicativi", da conservare senz'altro), gran parte di questi esercizi continuano ancora oggi a rinforzare la visione secondo cui le lingue sarebbero semplici realizzazioni di una lista inventariabile di nozioni e di funzioni universali.  La L2, cioè, continua ad essere trattata come puro logos, mentre essa è anche – e anzitutto – polis.


E' per questo motivo che i discenti di un corso comunicativo hanno spesso molta difficoltà a produrre (nonché a cogliere pienamente) discorsi reali in lingua.  La loro difficoltà non sta, propriamente parlando, nella mancanza di occasioni concrete per "praticare la lingua", come volentieri si crede.  Sta nel non aver acquisito la lingua al livello affettivo e sopratutto volitivo.  Infatti, non basta la "ricodifica affettiva" dei discenti – quella giustamente auspicata da Stevick (1976:10).  Dal momento che una lingua è essenzialmente una matrice intenzionale – cioè, come si è detto, la sedimentazione storica di un voler dire individuale e collettivo – occorre anzitutto una “ricodifica volitiva”.


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Tradurre questa visione comunicativo-culturale dell'insegnamento delle lingue in una prassi didattica attuabile nelle strutture odierne richiede qualche sforzo ma è del tutto praticabile. 


L'ostacolo principale è di natura psicologica.  A molti docenti L2 in Italia – se non altro per il solo fatto che per anni, a scuola e poi all'università, hanno imparato a considerare la comunicazione in una L2 come la mera trasmissione di concetti – un termine come "sapere volitivo" (phronesis nella terminologia di Aristotele) può sembrare sospetto.  Eppure, grazie agli apporti del cognitivismo diffusosi durante gli anni '80 e '90, molti di questi docenti di lingua straniera mettono già in pratica qualcosa di simile quando insegnano ai loro allievi di "operare tramite dei segni ... da bricoleurs" (Levi Strauss,1962:30), quando cioè essi fanno provare ai loro allievi lo smarrimento momentaneo che crea in loro la percezione della relatività delle costruzioni linguistiche, delle culture del mondo e, quindi, del proprio assetto esistenziale in quanto italiani.  Purtroppo nella misura in cui i loro insegnamenti si svolgono prevalentemente sul piano cognitivo, essi sfiorano soltanto la sfera volitiva degli alunni; non li portano ad una (pur momentanea) “transformation of consciousness“ (Boylan 2003).


La visione comunicativo-culturale dell'insegnamento delle lingue, invece – proprio perché incentrato sul linguaggio come intenzionalità – mira a portare i discenti a creare discorsi che siano voluti e sentiti.  Non solo, ma discorsi che un parlante nativo della cultura L2 potrebbe aver voluto produrre, sentendo analoghi intenti comunicativi e condizionamenti contestuali.


Quale parlante nativo? 


Ai discenti non vene chiesto di scimmiottare un ipotetico parlante nativo “ideale”, figura peraltro problematica (Byram 1994).  Non si tratta, dunque, di portarli a recitare un ruolo che sentono come estraneo.  Del resto, chi recita viene di solito smascherato come falso e ciò può compromettere l'esito di uno scambio in lingua. 


Nelle attività comunicativo-culturali, invece, il discente impara a “ricodificare” il proprio assetto esistenziale, per poter sentire come "reale" ciò che è reale per i membri dell'altra cultura, prendendo come modello una persona reale qualsiasi della cultura L2 – volendo, anche un personaggio marginale che parla una varietà non colta della L2 – purché si tratti di una persona che il discente vorrebbe sinceramente essere, almeno per un certo lasso di tempo, qualora potesse “rinascere” in quella cultura.  Il doppio può essere: (1.) un personaggio noto di cui è facile reperire in Internet documenti audiovisivi ed interviste, (2.) un madrelingua L2 conosciuto nelle chat o dai blogs, il quale si dichiara disposto a raccontare qualcosa di se su un file .mp3 audio o audiovisivo, o (3.) come ultima risorsa, un personaggio di un film disponibile in cassetta o DVD. 


Avendo documentato e interiorizzato i modi di essere ed i modi di esprimersi del suo doppio, l'allievo svolge una serie di attività che gli consentono di misurare l'effetto di questo suo nuovo modo di porsi su alcuni membri della cultura bersaglio reperiti ed intervistati nei luoghi turistici della sua città oppure in Internet (oppure portati in aula dal docente – ad esempio, colleghi di madrelingua L2).  Per dieci attività didattiche che consentono ai discenti di valutare l'efficacia delle loro immedesimazioni, vedi: http://host.uniroma3.it/docenti/boylan/text/boylan23.htm.  Per una presentazione con immagini, vedi http://cilt.boylan.it.  Per esempi pratici di lezioni già svolte negli anni passati con studenti di lingua dell'Università degli Studi Roma tre, vedi www.boylan.it


Imparare una L2 come trasformazione del proprio assetto esistenziale, per poter sentire come reale e importante ciò che è reale e importante per il doppio, consente ai discenti di entrare idealmente in sintonia con almeno un esponente della L2 che stanno studiando.  Il loro doppio apre, per modo di dire, un varco nella soggettività (il voler essere in un determinato modo) e nelle modalità espressive (il voler dire in un determinato modo) dell'altra cultura.


Ovviamente, i tentativi di documentare la forma mentis ed il linguaggio del doppio non possono che essere del tutto approssimativi.  I tentativi di assimilazione vera e propria lo sono ancora di più, necessariamente.  Ma in questa didattica l'obiettivo non è quello di riuscirci, ma quello di provarci.  Rientrando poi in se stessi per riprendere il proprio abituale modo di essere e di esprimersi da italiani, i discenti scopriranno di avere acquisito, malgrado il carattere spesso maldestro dei loro tentativi di immedesimazione, una vicinanza alla lingua e un'affinità nei confronti della cultura oggetto di studio che non avevano in precedenza.  E' un po' ciò che succede quando rientriamo nel nostro paese dopo un breve soggiorno all'estero, durante il quale abbiamo fatto un incontro significativo.  L'esperienza della soggettività altrui – il vivere momentaneamente come propri i vissuti di un membro dell'altra cultura – produce in noi una “transformation of consciousness” che in seguito, in occasione di incontri anche nel nostro paese con altri membri di quella cultura, ci consente di porci verbalmente e dal punto di vista comportamentale su un piano molto più vicino a loro di quanto non sarebbe avvenuto diversamente.  Questa capacità di “delocalizzarsi” (posizionarsi nel mondo dell'altro) si chiama la "competenza interculturale".


In effetti, mentre la competenza comunicativa consiste nella nostra capacità di realizzare spontaneamente atti linguistici (speech act) che siano contestualmente appropriati, la competenza interculturale è la nostra capacità di gestire eventi comunicativi in cui i partecipanti hanno una forma mentis ed un assetto esistenziale diversi dal nostro e di parlare il loro linguaggio dall’interno del loro mondo. 


Non solo, ma si può addirittura arrivare a parlare il linguaggio dei propri interlocutori senza usare la loro lingua, attraverso l'adozione – nella propria lingua madre o in una lingua franca – di un modo di esprimersi coerente con la loro cultura.


E' un po' quello che succede – ma alla rovescia – se parliamo male una lingua straniera: in questo caso, usiamo la lingua (o, più propriamente, il repertorio verbale) del nostro interlocutore straniero ma non un modo di esprimerci coerente con la sua cultura, basato cioè su un modo di vedere momentaneamente condiviso.  In una parola parliamo la sua lingua, ma non il suo “linguaggio” – né potremmo farlo, non avendo modificato il nostro assetto esistenziale.  Perciò arriviamo tutt'al più ad esprimere realtà italiane alla maniera italiana usando parole inglesi o francesi.  Ciò ci consente una comprensione minima, ma difficilmente un'intesa.


Per chiarire ulteriormente il concetto, immaginiamo ora il caso di un “tipico gentleman britannico” tutto di un pezzo che viene in Italia per un soggiorno dopo aver seguito un corso puramente comunicativo d'italiano a Londra.  Con ogni probabilità egli farà sorridere i suoi interlocutori italiani proprio perché, malgrado l'impiego corretto delle parole e delle forme grammaticali italiane, continuerà a parlare “mentalmente” il suo inglese della Regina, ovvero continuerà ad usare il suo inglese in quanto matrice intenzionale espressiva.  E ciò si sentirà.  A seconda dei casi, il distacco che egli creerà con il suo modo di porsi e di esprimersi potrà farlo risultare distante e poco interessante oppure, inversamente, “pittoresco” e quindi più simpatico.  Ma in tutti e due i casi, egli incontrerà delle difficoltà a creare autentici legami di solidarietà paritaria, proprio per il suo modo di relazionarsi parlando.


Invece, con ogni probabilità, questo ipotetico gentleman inglese avrebbe maggiore successo nei suoi rapporti con i suoi interlocutori italiani se prima del viaggio, invece del corso puramente comunicativo, egli avesse potuto seguire un corso d'italiano svolto con il metodo comunicativo-culturale, in modo da imparare come relazionarsi interculturalmente con gli italiani.  (Stiamo parlando ipoteticamente: infatti, attualmente corsi del genere esistono per il tedesco e per l'inglese come lingua straniera, ma non ancora per l'italiano.)


Il corso comunicativo-culturale avrebbe insegnato a nostro ipotetico gentleman forse meno parole e meno forme grammaticali rispetto al corso comunicativo, ma, in compenso, egli avrebbe imparato a modificare il suo assetto esistenziale mentre parla in italiano.  Cioè, egli avrebbe imparato a sciogliersi di più, ad acquisire una cadenza più ritmata e più sentita, ad alludere alle questioni delicate piuttosto che nominarle direttamente, a fare battute umoristiche basate sul pathos più che sulla fredda ironia, a non aver paura di usare i superlativi (un buon britannico tende ad evitarli, preferendo le litoti o l'“understatement”) e addirittura di usarli con gusto! Non solo, ma egli avrebbe anche imparato a dire (e ad avere) “pazienza!”, ad usare (ed a pensare in termini di) “noi” e non solo “io”, a dare importanza agli eventuali titoli dei suoi interlocutori (titoli come “Avvocato” e “Ingegnere” non esistono in inglese).  Del resto, sul piano dei contenuti, egli avrebbe imparato a dare una giusta importanza a tutto ciò che probabilmente risulterà importante ai suoi futuri interlocutori italiani: per esempio, la dimensione storica e gli aspetti umani di un problema, i ruoli dei vari personaggi nel teatrino politico del Bel Paese, l'uso del cibo per mediare i rapporti interpersonali e via discorrendo. 


Qualora fosse riuscito ad acquisire una visione del mondo di questo tipo, il nostro gentleman inglese, arrivato in Italia, non potrebbe non avere molto più successo nel comunicare con i suoi nuovi interlocutori.  Anzi, si può ipotizzare un maggiore successo comunicativo addirittura nei momenti in cui – trovandosi a conversare con interlocutori italiani che, per mantenersi in esercizio, preferiscono usare l'inglese – egli adopererà la sua lingua madre.  Ad esempio, scherzerà con loro in inglese proprio come avrebbe fatto spontaneamente in italiano, mettendo in primo piano il pathos dell'evento raccontato per far sorridere.


La competenza interculturale, dunque, è il saper comunicare con un interlocutore straniero usando il suo “linguaggio”, quali che siano i repertori verbali e gestuali che adoperiamo, ovvero, come si è detto prima, è la capacità di gestire eventi comunicativi parlando ai propri interlocutori da dentro il loro mondo. 


Pertanto un corso di lingua impostato in un'ottica comunicativo-culturale dovrebbe incentrarsi sugli atti comunicativi intesi non come “testi” (orali o scritti) da analizzare e recitare (come si fa attualmente con il metodo comunicativo), bensì come avvenimenti in svolgimento da saper gestire dall'interno. 


Per “evento comunicativo” s'intende una scena -- in cui l'uso del repertorio verbale può essere assente o meramente di contorno, come Malinowski (1923) ha notato con acutezza – in cui irrompono uno (o generalmente più) intenti espressivi che cercano di imprimersi sul decorso degli avvenimenti.  Anche il decorso di un semplice stare insieme senza dire nulla costituisce un avvenimento.  Se i partecipanti sono cooperativi l'evento si svolge come la ricerca più o meno fruttuosa di un codice comune (“si arriva a capirsi”); se sono competitivi, ogni intento espressivo diventa un "claim to value" (Stuart Hall, 1981) che può urtare gli assetti già costituti e che va quindi negoziato.  (Gli assetti costituti comprendono non solo le posizioni negoziali di partenza degli interlocutori e la posta in gioco, ma anche ed innanzitutto i significati attribuiti alle parole e alle altre rappresentazioni.)


Gli esiti di un evento comunicativo sono, per usare la terminologia della teoria dei giochi, win/loose (o “a somma zero”) in cui la posta va interamente ad uno dei partecipanti a scapito degli altri, oppure loose/loose in cui salta il negoziato o addirittura in cui tutti perdono la loro posta in gioco, win-loose/win-loose ovverosia il compromesso e, infine, win/win in cui tutti ricavano qualche beneficio senza rimettere nulla.  Arrivare a quest'ultimo esito – quello più ambito perché consente di guadagnare senza creare rancori e quindi senza pregiudicare i futuri rapporti – richiede, da parte dei partecipanti, una capacità di trovare, dietro le apparenti contrapposizioni, una convergenza di obiettivi.  Questa capacità, a sua volta, richiede una comprensione intima dell'altro e di ciò che sta a monte dei suoi intenti dichiarati – quasi sempre un intreccio di valori e di pulsioni determinato, almeno in parte, culturalmente.

Seconda quanto esposto in precedenza, è possibile capire intimamente (come propri) i significati culturalmente connotati espressi da un interlocutore, in modo da poter parlare sia la sua lingua sia il suo linguaggio, solo attraverso la condivisione esperienziale della realtà, in presa diretta oppure ricreata ermeneuticamente tramite l'empatia (Stein, 2002 [1917]).  Pertanto, alla luce di quanto esposto, si può concludere che la migliore premessa per la ricerca di un eventuale esito win/win nelle interazioni tra persone provenienti da diverse comunità linguistiche sia l'acquisizione – da parte di almeno uno degli interagenti – di una competenza comunicativa (nella lingua di intermediazione) che sia, allo stesso tempo, una competenza interculturale.




Bibliografia


Bettoni C. (2001) Imparare un'altra lingua, Bari: Laterza


Boylan, P. (2003) Rewriting oneself. IV annual IALIC conference, Lancaster University, 16.12.2003. In Internet: http://host.uniroma3.it/docenti/boylan/ricerca.htm


Boylan, P. (2004) Seeing and Saying Things in English. CILT Higher Education Conference, University of London, 30.6.2004. In Internet: http://host.uniroma3.it/docenti/boylan/ricerca.htm


Byram M. & Morgan C. (1994), Teaching and learning languages and culture. Clevedon: Multilingual Matters.


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Lèvi-Strauss C. (1962) La Pensée sauvage. Paris, Plon.


Malinowski B. (1923). The Problem of Meaning in Primitive Languages. In: C.H. Ogden & I.A. Richards (Eds.). The Meaning of Meaning. London: Routledge & Kegan Paul. 333-383.


Moneta, E. M. (2000) Deutsche und Italiener: der Einfluss von Stereotypen auf interkulturelle Kommunikation, Frankfurt/M: Lang.


Stein, E. (2002) L’empatia, traduzione di M. Nicoletti, 6a edizione. Milano: Franco Angeli. Originale: Zum Problem der Einfühlung. Dissertation, Halle 1917.


Stevick, E. W. (1976). Memory, Meaning and Method: Some Psychological Perspectives on Language Teaching. Rowley, MA: Newbury House Publishers.


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