AIF Learning News, II: 4, April 2008   ©2010 - Patrick Boylan  –  patrickboylan.it  –  www.boylan.it  –  Return to Publications Page  or  Home Page


Learning News                                                                                 Aprile 2008, anno II – N. 4

Appunti sulla formazione
e la ricerca interculturale in Italia.

Nasce la SIETAR-Italia


di Patrick Boylan*



In Italia mancano da sempre gli specialisti nella comunicazione interculturale (CI) poiché manca una domanda diffusa per queste figure. In campo aziendale, per esempio, alcuni grandi gruppi, come ENI e FIAT, vantano una lunga tradizione di formazione in CI finalizzata alle esigenze del loro business internazionale; ma la maggior parte delle imprese italiane sono piccole o medie società a carattere familiare e, a parere dei loro proprietari, il clima -appunto familiare- che vi regna garantisce una sufficiente coesione della forza di lavoro multiculturale.1 Anche nelle industrie italiane di esportazione, la stragrande maggioranza dei top manager continua ad essere convinta che la naturale attitudine italiana (“essere simpatici e amichevoli”) dei rappresentanti aziendali basti a rendere agevole ogni relazione d’affari. Ovviamente, non è bastata nel caso, ad esempio, della fallita joint-venture tra Alitalia e KLM: le due società divorziarono nel 2000, dopo una breve unione, per “incompatibilità” (e il successivo felice matrimonio tra KLM ed Air France ci dice che la scarsa capacità di adattamento non era imputabile agli olandesi…). Dopo quel fallimento, i manager italiani più avvertiti iniziarono a nutrire maggior interesse per la formazione in CI per il loro staff.



Per converso, in Italia non mancano gli esperti interculturali tra i professori universitari come tra gli operatori nel campo sociale. Questi però si sono occupati finora principalmente dello studio dei fenomeni legati ai flussi migratori piuttosto che delle specifiche competenze richieste per una CI efficace (ci sono, ad esempio, pochi studi sulla CI come “comunicazione asimmetrica” o sui meccanismi di “accomodamento” come strategia di avvicinamento). La prima cattedra di Educazione Interculturale alla Sapienza di Roma fu istituita per venire incontro ai bisogni degli insegnanti della Scuola alle prese con classi multiculturali. L'insegnamento della CI alla Bicocca di Milano viene riservato ad un programma post-universitario che tratta di Management dei Servizi Sociali. “Interculturando”, una delle più grandi cooperative che lavora nel sociale, ha come principali committenti le scuole e gli enti locali per programmi volti ad aiutare insegnanti e amministratori a rispondere ai bisogni della popolazione straniera. Certo, i fenomeni linguistici e discorsivi fanno parte dei percorsi formativi; nondimeno, il “focus” resta sulla descrizione delle culture e sullo sviluppo di “approcci corretti” nei riguardi della Diversità.



Se mi è consentito un appunto personale, io stesso sin dal 1980 insegno “English for Intercultural Communication”, prima all’Università di Roma I e poi di Roma III: i miei studenti italiani devono imparare ad interpretare -ed a riprodurre nei loro discorsi- il “mind set” di interlocutori che provengono dalle più diverse culture e che, per comunicare, usano l'inglese come lingua franca. Ma per quanto la mia università, Roma III, ha ora un curriculum ufficiale in “Languages for Operators in Intercultural Communication, il programma manca di insegnamenti specifici in CI e così resta fondamentalmente un corso di laurea in linguistica teorica con, in aggiunta, lo studio di due lingue. Un più ampio spettro di materie si può riscontrare nei programmi di “Lingue e Comunicazione Interculturale” delle Università di Chieti, Genova, L’Aquila, Siena e Torino.



In pratica, la visione dell’’interculturalità come fenomeno primariamente di comunicazione (in cui il linguaggio verbale e non verbale viene usato non soltanto per rappresentare o fare qualcosa, ma soprattutto per essere qualcosa in un certo modo) comincia a prender piede nell’Università italiana; nonostante ciò, la maggior parte degli insegnamenti e delle ricerche sull'interculturalità svolti oggi in Italia rimane incentrata su come organizzare le società multiculturali di fronte alle sfide dell’immigrazione su larga scala, su come coniugare identità ed appartenenza nell'era della globalizzazione, su come disinnestare gli scontri tra civiltà e via di questo passo. Suscita molto meno interesse lo studio dell'incidenza della diversità culturale sulla comunicazione tra due individui di diversa provenienza.



Una situazione analoga regna in Italia tra gli operatori sociali. Questi professionisti sono chiamati generalmente a mediare tra le istituzioni (scuole, ospedali, enti governativi, ecc.) e la popolazione immigrata rispetto a conflitti culturali, reali o potenziali. Le loro competenze in CI sono considerate soprattutto come abilità nel rimuovere le cause di tali conflitti e proporre soluzioni veloci ed efficaci. Oppure la loro esperienza interculturale viene vista in funzione “preventiva”, volta a disinnescare i conflitti prima che essi esplodano: questo implica, ad esempio, usare tecniche di sviluppo di consapevolezza per affrontare “situazioni a rischio”, per relativizzare costrutti come “normalità” e “diversità”, per smascherare paure nascoste e manovre di potere. Comunque, in entrambi i casi viene riconosciuto a questi operatori una funzione meramente da “vigili del fuoco”. Solo occasionalmente gli enti affidano loro un compito squisitamente educativo, che vede nell'interculturalità un fattore di crescita sociale. Una felice eccezione sono le iniziative recentemente messe in cantiere dalla Fondazione Intercultura: http://www.intercultura.it/P03.001/fondazione/fondazione.shtml .



Ma anche quando gli operatori sociali italiani lavorano in una prospettiva realmente educativa, spesso manca il tempo necessario per realizzare appieno tale traguardo, ossia per indurre un volitional change – “un cambiamento nelle proprie radici motivazionali tramite l'interiorizzazione dei valori dell'altra cultura”. Si tratta di un cambiamento che va ben oltre l'acquisizione di nuove conoscenze, di nuovi affetti o di nuove convinzioni e che l'operatore dovrebbe, tempo permettendo, indurre dapprima in se stesso (per meglio interagire con i soggetti affidatigli), poi, mutatis mutandis, negli stessi soggetti.2



I costrutti appena menzionati -come volitional change, dislocazione, terzo spazio- difficilmente vengono approfonditi in Italia in assenza di attività formative ad esse correlate. Del resto, gli operatori nel campo sociale hanno pure bisogno di ricette veloci e di rimedi concreti da apprendere e portare a casa. Si profila, dunque, un interessante spazio per iniziative da parte della nascente sezione italiana di SIETAR.3



Infatti, la costituenda SIETAR-Italia si propone di invigorire, tramite vari progetti, la ricerca applicata in Italia su temi riguardanti la CI, con particolare attenzione ai bisogni dei trainers aziendali e sociali. Il primo consiste in una ricerca sulla “Costruzione della fiducia in contesti interculturali in Italia”. Sono stati individuati una serie di parametri da utilizzare per descrivere e analizzare “intercultural incidents” ed è stato elaborato uno specifico questionario rivolto anche ai formatori italiani ed al quale questi possono partecipare sul sito http://tinyurl.com/2u259r. I risultati del questionario serviranno da base per un workshop che alcuni membri della SIETAR-Italia terranno al prossimo congresso della SIETAR-Globale (Granada, Spagna, dal 22 al 26 ottobre 2008: http://www.sietarglobal2008.org). Al congresso verranno presentate oltre cento relazioni, alcune di ricerca teorica ed applicata nel campo della CI, molte riguardanti i best practices nel training interculturale e, infine, un certo numero sui temi specifici del congresso: identità e cittadinanza globale, l'impatto delle aziende transnazionali sulle culture del mondo, la comunicazione pluri-culturale delle informazioni nel villaggio globale; la cultura dei mondi virtuali accessibili globalmente tramite Internet.

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*Patrick Boylan, professore associato all'Università degli Studi Roma Tre, è pioniere della comunicazione interculturale in Italia. Sin dal 1980, infatti, insegna le lingue non come analisi grammaticale di testi ma come ricerca etnografica sul campo. E' nato a Los Angeles (USA) nel 1940 e ha un D.E.S. dalla Sorbona in linguistica.



1. La forza di lavoro multiculturale è un fenomeno relativamente recente per un Paese come l’Italia che fino a 5 cinque anni fa contava la più bassa percentuale di lavoratori stranieri nell'UE.

2. Si ipotizza, dunque, che per interagire efficacemente con una persona di diversa cultura, capendolo e facendosi capire realmente, bisogna acquisire il suo modo di dire e di vedere le cose. Ciò implica un dislocarci nel suo mondo linguistico e culturale, sul piano volitivo e non solo cognitivo e affettivo. Fare ciò produce un cambiamento strutturale nella relazione e infine uno “spazio terzo” (third space) che permette l’intesa (entente). Nell'operare il dislocamento descritto, la o le proprie culture di origine non vengono affatto annullate; vengono affiancate da sistemi di valori complementari, da mettere in primo o in secondo piano, a seconda delle situazioni.

3. SIETAR – Society for Intercultural Education, Training And Research. Nata nel 1974 negli Stati Uniti tra coloro che preparavano i giovani americani per il Peace Corps, la SIETAR si è successivamente sviluppata come incubatrice di trainer aziendali per gli uomini di affari americani inviati all'estero dalle loro aziende. Nel 1991 si è creata la SIETAR-Europa che raggruppa la SIETAR-Germania (640 membri), la SIETAR-France e la SIETAR-Gran Bretagna (circa 400 membri ciascuna), la SIETAR-Olanda e la SIETAR-Austria (circa 200 membri). La presenza di accademici e di operatori sociali è più evidente in queste SIETAR europee, in particolare in quella francese. Il 23 giugno a Milano, dovrebbe nascere la SIETAR-Italia, già con una cinquantina di aderenti, prevalentemente trainers: www.sietar-italia.org .