Insegnare le lingue come cultura: un'intervista con Patrick Boylan

Officina.it*, no. 4, aprile 2010, pp. 2-4
*la rivista didattica di Alma Edizioni, Firenze

Il testo dell'intervista appare integralmente qui sotto, per una più facile lettura su tablet o cellulare.

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OFFICINA: Sei l’autore di un corso di lingua inglese basato su un approccio “comunicativo-culturale”. Decisamente una novità nel panorama italiano per l’epoca (il libro è del 1987 ). In che cosa si differenziava già allora dal più noto approccio comunicativo?


BOYLAN: Si basava su una visione più ampia della comunicazione umana. Molti docenti pensano di seguire il “metodo comunicativo” quando, in una lezione di inglese L2, dicono a Mario di chiedere l'ora a Maria e dicono a Maria di rispondere che sono le otto. Ma questa non è affatto un'attività comunicativa. I due alunni parlano, sì, ma è una recita, non una vera comunicazione tra di loro: a Mario non importa di sapere l'ora e se Maria guardasse il suo orologio si accorgerebbe che non sono affatto le otto. I due alunni stanno semplicemente svolgendo un esercizio scolastico denominato “dialogo” per utilizzare (o per far vedere al docente che sanno utilizzare) determinati vocaboli, regole sintattiche, ecc. Nei fatti, dunque, si tratta di una vecchia lezione grammaticale-traduttiva travestita da dialogo.

Invece in una lezione di lingua davvero comunicativa, vengono create situazioni che spingono gli alunni a voler mettersi in rapporto gli uni con gli altri tramite la lingua, a voler interagire per finalità regolatrici, interpersonali, immaginative, ecc. (Alludo alle varie funzioni di discorso definite da Halliday). Perché i vocaboli, da soli, non “vogliono dire” nulla. Sono i parlanti che devono voler dire qualcosa usando anche quei vocaboli.


Questo è il segreto del successo del “Task Based Language Learning”, ad esempio la realizzazione di una video-inchiesta in lingua da spedire ad una classe gemella all'estero, oppure l'elaborazione di un'intervista in lingua, utilizzata poi su nativi parlanti scovati nei luoghi turistici della propria città. È anche il segreto della “pédagogie du travail” che Freinet introdusse nella scuola elementare nel 1923: i bambini realizzavano un giornaletto da diffondere nelle altre classi della scuola utilizzando, in un epoca pre-computer, una vera tipografia che il docente allestiva nell'aula. In tutti questi casi la didattica mira a sviluppare negli alunni autentiche volontà espressive, per poi indirizzarle opportunamente.


Quindi una lezione di lingua è “comunicativa” quando fa sì che gli alunni vogliono realmente comunicare qualcosa a qualcuno tramite la L2, per tutti gli scopi che Halliday elenca – quindi non soltanto per scopi “informativi” come nel 90% degli esercizi “comunicativi” che troviamo nei libri di testo (e come nel nostro esempio di Mario che interpella Maria in l'inglese per “informarsi dell'ora”). No, saper comunicare vuol dire molto ma molto di più di “informarsi”. Vuol dire saper usare la L2 per imprecare, per far ridere, per supplicare, per ironizzare, per esaltare con un'immagine poetica. I tuoi alunni hanno mai provato un'emozione usando la loro nuova lingua? L'hanno mai usata per canzonarti o per adularti? Se rispondi di sì, il tuo è stato un insegnamento “comunicativo” della L2.


La lezione di lingua diventa poi “comunicativa culturale”quando fa si che gli alunni vogliono realmente comunicare qualcosa a qualcuno tramite la L2, ponendosi e relazionandosi in un modo per loro diverso – segnatamente, in un modo consono con la cultura di una delle comunità che parlano la L2. Nota che ho detto “consono” – non ho detto che bisogna scimmiottare i modi di parlare e di fare di un cosiddetto “parlante nativo ideale”. E ho parlato di “comunità” al plurale, ognuno con la sua varietà della L2: non esiste una comunità di “parlanti nativi ideali” che parlano sempre e ovunque una L2 “pura”, tranne negli stereotipi, come Byram, Kramsch, ed altri hanno dimostrato. Esistono solo comunità variegate, ognuna con gamme di modi tipici di esprimersi e di porsi.


Per concludere, in un corso di lingua comunicativo-culturale gli alunni interiorizzano una gamma di modi di esprimersi e di porsi nella L2, per poi farne una sintesi personale.


OFFICINA: Bisogna davvero prendere a modello determinati parlanti nativi? Nel parlare una lingua straniera, non è meglio essere se stessi e basta, senza cambiare le proprie abitudini espressive? Almeno, così si dice...


BOYLAN: Chi dice così non si rende conto di quello che fa persino nella propria lingua madre. Gli studi fatti da Giles ed altri sul fenomeno dell'accomodamento dicono che un parlante stabilisce un migliore rapporto con i suoi interlocutori se aggiusta il proprio modo di parlare per essere più simile al loro. E' quello che facciamo istintivamente, tutti quanti, nella nostra lingua madre quando parliamo, per esempio, ad un bambino, ad un compaesano, ad un giudice, ecc. Cambiamo registro e codice ma soprattutto mentalità e modo di porci. Ed è proprio questo quello che dovremmo fare quando parliamo una lingua straniera.


Come? Ogni lingua è in realtà una famiglia di idiomi diversi, perciò durante la fase di apprendimento della L2 impareremo ad interiorizzare uno di essi – non a fondo, basta un assaggio, mordi e fuggi – per poi interiorizzarne un altro il mese successivo e via discorrendo. Ciò ci abituerà non solo ad accenti e stili diversi ma soprattutto ad associare modi diversi di usare la L2 con valori e stili di vita diversi. Cominceremo a capire la complessità dell'altra cultura dall'interno, diventando momentaneamente, tramite l'immaginazione, membri di alcune delle sue comunità.


OFFICINA: Ma tu fai fare tutto questo nei corsi avanzati soltanto, m'immagino?


BOYLAN: Per niente. Il mio corso Accenti sull'America, di cui parlavi prima, è studiato per principianti (falsi principianti, per la precisione). Il corso fa sentire loro i vecchi programmi radiofonici americani, illustrati con fumetti, in cui appaiono tantissimi accenti e socioletti diversi. Durante le lezioni iniziali, gli alunni fanno i loro primi passi in inglese sentendo (e parlando come) i cowboys americani – quelli della versione radiofonica del film Stagecoach (Ombre Rosse) con John Wayne – poi sentono e imitano il parlato della East Coast colto, quello del radiocronista del celebre programma di Orson Welles, War of the Worlds. Troppa confusione? Per niente – gli alunni sono abituati a sentire cambiamenti ancora più marcati e repentini guardando MTV in inglese. Col tempo, poi, fanno istintivamente una sintesi, esattamente come hanno fatto da bambini in italiano.


OFFICINA. Hai detto che una lezione L2 diventa “comunicativa culturale” quando gli alunni si pongono “in un modo consono con la cultura L2.“ Che vuol dire? In base a quello che hai detto fin qua, sembra che devono solo abituarsi alle pronunce delle diverse comunità L2.


BOYLAN: No, no, quello è l'aspetto superficiale, c'è molto di più. “Porsi diversamente” vuol dire che gli allievi devono imparare ad assumere (interiorizzare) forma mentis diverse: devono imparare ad atteggiarsi da cowboy del Texas, da radiocronista newyorkese, ecc... E, naturalmente, devono imparare a smettere, momentaneamente, di porsi da italiano.


Sono ovviamente goffi i tentativi che fanno gli alunni a porsi da cowboy o da radiocronista americano. Ma il solo fatto di provarci consente loro di cogliere l'essenza del linguaggio, l'essenza di una lingua, che è, appunto, l'espressione di un modo di essere, di una forma mentis.

Infatti, una lingua non è una massa di parole legate da regole di sintassi, ma qualcosa di più (oserei dire) spirituale. Te ne accorgi quando, ad una festa all'estero, vedi i tentativi non riusciti di fare conversazione, di un connazionale che cerca maldestramente di usare la lingua del posto. Magari i vocaboli e la sintassi che usa sono corretti, ma ciononostante egli stona perché esprime, attraverso la L2, idee italiane alla maniera italiana con atteggiamenti e gestualità italiani. Anche se non commette errori grammaticali in lingua, tu percepisci che quello che dice è italiano, rivestito da parole della L2. Ora ciò che tu percepisci nei suoi discorsi, dopo aver fatto astrazione del rivestimento, è la lingua italiana allo stato puro.


Questo esempio fa vedere, dunque, che una lingua è, essenzialmente, l'articolazione di una certa volontà espressiva. Insegnare una lingua, dunque, vuol dire, essenzialmente, insegnare agli alunni a volersi porre diversamente: come un membro di una comunità L2.

Spesso si dice che, per sapere bene una lingua, bisogna “pensare” in quella lingua. In realtà bisogna fare molto di più, proprio perché le lingue sono stati volitivi, non mere costruzioni cognitive. Bisogna compiere dunque una “ricodifica affettiva”, per dirla con Stevick, e una ridirezione della propria volontà. Così si ottiene una “Transformation of Consciousness”, cioè una trasformazione del proprio assetto esistenziale.


Tutto questo può sembrare esoterico, ma non lo è. Lo facciamo tutti i giorni, come dicevo prima. Quando, conversando, stabiliamo una grande sintonia con un bambino, con un compaesano, con un prete, ecc., cambiamo momentaneamente non solo la nostra mentalità abituale ma anche il nostro stato affettivo e assetto volitivo abituali. Per esempio, quando riusciamo ad entrare davvero in sintonia con un bambino, torniamo bambini anche noi, giochiamo con più piacere di quanto non facciamo da adulti e diamo meno importanza (almeno, per il momento) ai nostri appuntamenti e ai nostri doveri. Entrando in sintonia con un compaesano incontrato nell'osteria del villaggio, torniamo paesani anche noi, mangiamo magari le fave crude che lui ha messo sul tavolo e che non compreremmo mai in città: mangiandole, ci sembra diventare più autentici. In un caso come nell'altro, produciamo in noi stessi una “Transformation of Consciousness” che ci consente, poi, di comunicare con il bambino o con il compaesano molto meglio, parlando non soltanto la loro lingua (italiano o dialetto) ma anche il loro linguaggio.


Vedi? In italiano l'espressione che ho appena usato, “il loro linguaggio”, allude proprio a quella cosa spirituale che dicevo prima e che è l'essenza di una lingua: ossia, una certa volontà espressiva che deriva da un certo modo di porsi. Questo dovrebbe essere l'oggetto del nostro insegnamento in un corso L2.


OFFICINA: Come la definiresti oggi la “competenza interculturale”?


BOYLAN: Come l'ho definito vent'anni fa: sapersi dislocare nella forma mentis di un interlocutore di altra cultura. Ed acquisire così una nuova visione del mondo. È proprio per acquisire più visioni del mondo che studiamo le lingue, no?


OFFICINA: Non c'è più spazio. Per chi vuole saperne di più...?


BOYLAN: Suggerisco alcuni scritti scaricabili dal mio sito, www.boylan.it, alla pagina PUBBLICAZIONI): (#27) “La competenza interculturale attraverso l'insegnamento comunicativo-culturale delle lingue”; (#31) “Imparare (ed insegnare) una lingua viva è un umanesimo”; (#23) “Seeing and saying things in English”. In quanto al corso radiofonico che ho descritto, l'ho usato in un'epoca pre-Internet; quindi non c'è traccia in rete. Invece dal 1998 tutte le mie lezioni all'Università Roma Tre sono su www.boylan.it (pagina DIDATTICA > CORSI). Guardate, ad esempio, il corso di Prima Annualità dellanno accademico 2006-07 (link direct: http://tinyurl.com/06-07-1).







Patrick Boylan, laureatosi in Lettere dall'Università della California e con un D.E.S. in Stilistica letteraria dalla Sorbona, è professore associato di Lingua e Traduzione Inglese all'Università Roma Tre dove ha creato il primo insegnamento in Italia di “Inglese per la comunicazione interculturale.” E' stato un pioniere, sin dagli anni '70, dell'approccio etnografico all'apprendimento delle lingue. Ha sviluppato inoltre la tecnica dell'identikit culturale di un sosia L2 per facilitare l'interiorizzazione della cultura L2 come forma mentis. Le sue ricerche riguardano soprattutto l'epistemologia dell'apprendimento linguistico e della comprensione interculturale e, nel campo informatico, il dialogo uomo/macchina. E' co-fondatore e membro del direttivo della SIETAR-Italia (Society for Intercultural Education, Training and Research) ed è stato membro del direttivo della SIETAR-Europa, dell'AIA (Associazione Italiana Anglistica) e dell'IALIC (International Association for Language and Intercultural Communication). E' membro del comitato scientifico e del Board della rivista Cultus -- Journal of Intercultural Mediation and Communication.





1. Accenti sull’America. Curcio, Roma, 1987. Leggi la postfazione http://patrick.boylan.it/text/boylan-b.htm.  (ritorno)