Dalla rivista on-line / from the on-line review:
Salotto , 10 dicembre 2012, www.traduzionimelt.it/category/salotto



Intervista a Patrick Boylan: L'Attività di traduzione

di Claudio Mancini | in Salotto | 10 dicembre 2012

Patrick Boylan, già professore di Inglese per la Comunicazione Interculturale all’Università “RomaTre”, si è laureato nella sua nativa California e poi specializzato in linguistica a Parigi.  Visiting professor alla Sorbona ed in altre università, egli ha ricoperto incarichi direttivi nelle associazioni SIETAR, AIA, IALIC, CNLLS.  Ora co-dirige il Journal of Intercultural Mediation and Communication (Cultus), svolge training interculturali ed è attivista per la Rete NoWar, USC4P&J, PeaceLink.

Nel suo pur vasto curriculum vitae, tra le sue esperienze lavorative non figura l'attività di traduzione.  Ha mai svolto traduzioni?  Se sì, ci può raccontare delle sue esperienze in merito?

Nel mio curriculum non figura l’attività di traduzione perché quello caricato sul mio sito web è solo un “mini curriculum”, come dice il titolo.  Se avessi messo tutti i lavori che ho svolto nella vita, avrei aggiunto anche i lavori per mandarmi avanti con gli studi  universitari, negli Stati Uniti (durante la laurea in Lettere), poi a Parigi (durante il dottorato in Linguistica) poi a Roma (durante i corsi in didattica delle lingue): lavapiatti, edile, giardiniere, venditore porta a porta, pubblicitario, revisore bozze… e anche traduttore, per un breve periodo.

Comunque stiamo usando la parola “traduttore” nel senso stretto del termine.  In senso lato, io, come te, faccio continuamente il traduttore.  Traduciamo in ogni istante.  Mentre ti sto parlando (per iscritto) in questo momento, sto cercando di rendere in parole quel groviglio di ricordi e di intenti espressivi che la tua domanda ha suscitato in me.  Sto traducendo, no?

Beh, a dire la verità, “tradurre” non è la parola esatta in questo caso.  Tecnicamente, sto facendo una “trasposizione”: perché nel tradurre passiamo da un sistema linguistico-culturale ad un altro, mentre nel “trasporre” passiamo da un sistema semiotico ad un altro.  In questo istante sto “trasponendo” in italiano scritto colto, quindi in un determinato sistema semiotico fondato su una “lingua”,  una serie di istantanee mentali di scene vissute nel passato, con i carichi emotivi che le accompagnano — insomma, i miei ricordi da lavapiatti, edile, pubblicitario, ecc.   Quindi sto “trasponendo” — in lingua italiana — sistemi semiotici sensoriale-pulsionali, di altra natura.

Quindi, per essere preciso, avrei dovuto dire: “In senso lato, io, come te, ‘traspongo’ in ogni istante.”

Solo che questa frase suona male, non siamo abituati ad usare termini tecnici come “trasporre.”  Per cui ho semplificato dicendo: “traduciamo in ogni istante” e nel fare ciò, ho svolto una traduzione vera e propria, chiamata in gergo “intralinguistica”: dal registro tecnico al registro comune della lingua italiana.  E anche in questo senso, posso affermare che io, come te, faccio continuamente il traduttore.  Chi non ridice, parafrasandoli, i propri propositi o quelli del proprio interlocutore?  Lo facciamo di continuo!

Ma neanche questo ti soddisferà, ne sono sicuro, perché la “traduzione” per te consiste nel passaggio da un sistema linguistico-culturale ad un altro — dall’italiano all’inglese, insomma — e vuoi sapere se ho lavorato come traduttore in questo senso.

Ebbene, sì!  E ho fatto un po’ di tutto come traduttore: da domande di lavoro all’estero rese in inglese per amici-studenti francesi e italiani, fino a dibattiti politici in cui mi sono improvvisato come interprete consecutivo (o addirittura simultaneo, ad esempio al primo congresso fondante di Rifondazione Comunista).  Ma forse neanche questa risposta ti soddisferà, perché questi “lavori” non sono mai stati remunerati e comunque non erano continuativi.  Tu invece vuoi sapere se ho sgobbato come traduttore-mestierante, ossia colui o colei — stipendiato o freelance — che accetta di rendersi schiavo/a di computer capricciosi e di committenti ancora più capricciosi, allo scopo di portare i testi di quest’ultimi da una lingua ad un altra, per pochi soldi e per lungo tempo.  Un professionista, insomma.  E’ così?  Ebbene, sì, ho fatto anche quello.  Quindi siamo colleghi.

Ad esempio, per un anno, quando sono venuto per la prima volta a Roma, ho tradotto trattamenti (pre-sceneggiature) dal francese all’inglese per una casa di produzione cinematografica franco-italiana; poi, avendo imparato l’italiano, per un altro anno anche da originali in italiano — la casa era continuamente alla ricerca di co-produttori stranieri per i suoi film.  Ero arrivato da poco a Roma e un giorno, in un caffè accanto al Pantheon, mi ero imbattuto per caso nel direttore della casa di produzione, in vena di chiacchiere al bar mentre sorseggiava la sua Tazza d’Oro.  Egli era stato assistente di Fellini per il film “8 1/2″, che io adoro (non ho mai fatto il regista perché con questo film Fellini mi ha battuto sul tempo).  Questo produttore, reputandomi uno che se ne intende (in quanto evidentemente la pensavo come lui sul film), ha cominciato a passarmi i copioni da tradurre e anche, ogni tanto, gli assegni per i lavori fatti (“ogni tanto” perché il mondo del cinema è quello).  Quindi è stata un’esperienza da “traduttore” nel senso in cui lo intendi tu.

Alla fine, però, ho lasciato.  Non fa per me questa professione — anche se accetto volentieri di fare il traduttore/interprete occasionale per gli amici e anche se, come dicevo all’inizio, traduco/traspongo in continuazione come tutti noi.   Ma il mestiere di traduttore è tutta un’altra cosa e bisogna avere la vocazione (o la necessità) e l’umiltà necessarie per rendere nella propria madrelingua, ora dopo ora, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, i propositi spesso idioti di altre persone di madrelingua diversa.  Io, alla lunga, proprio non ce la facevo.  Voglio poter dire la mia.  Come sto facendo ora.

Si dice spesso che molti insegnanti di lingua traducono per arrotondare lo stipendio, e  che molti traduttori insegnano per campare.  C’è un nesso di interdipendenza tra queste due attività?

L’interdipendenza tra l’insegnamento (o l’apprendimento) di una lingua e la traduzione interlinguistica è strettissima.

L’ho fatta lunga all’inizio di questa “intervista scritta” proprio per chiarire la natura della traduzione.  Perché la traduzione è essenzialmente quell’atto di “trasposizione” che ho cercato di descrivere.

Quando traduci, devi cercare equivalenze, non tra due parole o catene di parole, e nemmeno tra due “concetti” o “significati”, bensì tra due stati.  Da una parte, c’è lo stato “X” in cui ti trovi dopo aver letto qualcosa (una parola, una catena di parole, un brano intero) nel testo di partenza.  Dall’altra parte, c’è lo stato “Y”, quello —  il più somigliante possibile allo stato “X” — che una persona di una determinata lingua e cultura diversa (target public) potrebbe provare.

Per esempio, se io leggo un brano di Pirandello che rievoca la gelosia morbosa, brano che devo rendere in inuktitut (lingua degli eschimesi dell’Alaska),  avrò delle difficoltà perché, almeno secondo la leggenda, gli eschimesi invitano un ospite a tenersi caldo la notte dormendo con il proprio partner.  Come faccio a rendere lo stato di sgomento rabbioso e di apprensione che caratterizza la gelosia pirandelliana a un eschimese che apparentemente quel sentimento non lo conosce? Altro che le “intraducibili” parole per “neve” in inuktitut, secondo un’altra leggenda metropolitana!

La risposta è che non  devo trovare le parole che usano gli eschimesi per descrivere lo stato di gelosia matrimoniale (e neanche potrei, perché quello stato non esiste, secondo la leggenda); devo invece cercare le parole che usano gli eschimesi per descrivere uno stato simile, “Y”, e usare quel linguaggio — ad esempio, lo stato che prova un eschimese quando vede, ad un tratto, i cacciatori di foche di un’altra tribu gironzolare intorno all’insenatura costiera che egli rivendica come territorio suo.  E per poter suscitare in me un feeling simile a quello stato Y, così da far nascere in me le parole appropriate in inuktitut che userò nella mia traduzione di Pirandello, devo essere proprio addentrato nella cultura eschimese.

Nota che, una volta trovato quel secondo stato, “Y”, nel far sorgere in me le parole ad esso associate, io compio una “trasposizione” perché passo da uno stato emotivo ad una espressione linguistica in lingua inuktitut, usando le parole che gli stessi eschimesi usano per parlare di quello stato.  È questo ciò che mi permette di rendere in inuktitut il brano di Pirandello, fiducioso di poter produrre sui miei futuri lettori eschimesi gli stessi effetti che il brano pirandelliano ha prodotto sui suoi lettori siciliani di origine.  Come vedi, il traduttore compie lo stesso lavoro dell’autore, che è partito da uno stato volitivo iniziale “X” a cui ha cercato di dare parole.  Solo che il traduttore, nel fare un lavoro creativo analogo partendo dallo stato volitivo “Y”, ha il vantaggio di poter plagiare legalmente il testo di partenza. Anzi, di DOVER plagiare quel testo.

Vedi?  Con la traduzione c’entrano poco le parole.  C’entrano sopratutto le equivalenze di stati vissuti.

Ebbene, se questa è la traduzione, NON bisogna insegnare la traduzione come equivalenza linguistica.   Mi dispiace di essere così severo con gli insegnanti di lingua che adottano questo approccio, come se fosse un “affar di parole”.  E lo fanno perché insegnano le lingue così,  come se fossero “affar di parole” — e non lo sono, le lingue sono stati volitivi, non mere costruzioni cognitive.  Ma dal momento che gli insegnanti tradizionali pensano invece che le lingue e la traduzione siano costruzioni di parole, allora — nel loro caso — si può dire che l’insegnamento delle lingue ha poca attinenza con la traduzione, che invece riguarda come rendere stati volitivi.

Ma se, per un moderno docente di lingue, insegnare una lingua significa far vivere agli studenti modi diversi di vedere le cose, di vivere le cose, allora — per il lavoro d’insegnamento di quel docente — la traduzione ha un’attinenza stretta.

Nelle lezioni di lingue di quel docente moderno viene privilegiato l’insegnamento della cultura dell’altro paese sopra il (pur necessario ma secondario) insegnamento grammaticale della lingua.  Insegnare una cultura significa inculcare una nuova forma mentis e nuovi stati volitivi, non illustrare la storia delle istituzioni culturali di un particolare popolo.

Ma come si fa ad insegnare una nuova forma mentis e nuovi stati volitivi?  Facendo vedere filmati in lingua e poi facendo imitare i modi di fare e di ragionare illustrati nei filmati, non importa se gli studenti capiscono o meno le singole parole.  Facendo anche lavori etnografici: quando gli studenti ritengono di aver colto e interiorizzato un aspetto della mentalità dell’altro popolo, vanno mandati in giro ad intervistare persone di quella comunità che possono trovare anche in Italia, per verificare le loro ipotesi.  I miei studenti d’inglese, dunque, intervistano gli americani o australiani o britannici che trovano a Roma nei luoghi turistici o semplicemente mentre aspettano in fila all’aeroporto per la partenza.

Allora se tu insegni la lingua così, come del resto ho sempre cercato di fare, allora la traduzione c’entra, eccome!  Perché stai continuamente rievocando stati e cercando di trovare stati equivalenti nella tua esperienza da italiano per afferarre i primi e per saper poi rendere i secondi in conversazioni con amici italiani, come io ho cercato di fare di te parlando del mio lavoro di lavapiatti.

In quanto all’uso del termine “traduzione” nel senso più stretto, ci sono anche momenti di traduzione “tradizionale”, anche in un’aula moderna di lingue straniere.  Viene infatti praticata la traduzione interlinguistica come verifica oppure per creare simulazioni.   Spiego tutto ciò in un articolo scaricabile qui oppure qui.  Purtroppo lo scritto è in francese, trattandosi di una conferenza che io ho fatto all’Università di Casablanca.  L’occasione era appunto un colloquio sulla “traduzione come incontro tra civiltà.”  Nella mia conferenza fornisco molti esempi di come insegnare una lingua come cultura, in vista della formazione di futuri traduttori, ma bisogna consultare il testo francese.  (Attenzione: esiste anche un altro mio scritto in lingua italiana che ha un titolo simile, ma che tratta l’epistemologia dell’atto traduttivo.)  Alcune indicazioni pratiche in lingua inglese sono invece reperibili qui e qui, mentre in italiano sono consultabili questo articolo o quest’altro.

Imparare un’altra lingua è innanzittuto imparare un’altra cultura.  Ci racconti le sue esperienze di insegnamento qui in Italia, le differenze culturali che ha incontrato (o con cui si è scontrato), gli ostacoli trovati e i motivi che l’hanno portata a insegnare qui.

Penso di aver già risposto alla prima parte di questa domanda — attraverso le attività come quelle descritte negli articoli linkati, le lingue possono essere insegnate per quello che sono essenzialmente: stati volitivi.  Ciò che chiamiamo “cultura” è un macro-stato-volitivo, un “voler essere” acquisito interagendo con gli altri di una determinata comunità — o di più comunità, nel caso delle persone pluriculturali.

Quanto alle differenze culturali che ho incontrato lavorando in Italia, sono un’infinità.  La compagine dei miei colleghi all’università mi spinge da anni (senza successo), con critiche, incoraggiamenti e talvolta ricatti, a farmi vestire in maniera meno “scaciato” e più da professore, a stare in cattedra durante le lezioni invece di sedermi in mezzo ai ragazzi, a dare voti (anche punitivi) invece di portare i ragazzi a formare gruppi in cui si autovalutano, a fornire programmi per l’Ordine degli Studi invece di indicazioni di traguardi generali da realizzarsi con gli studenti che mi troverò davanti (impossibile dirlo in anticipo, dunque)… insomma, ho sentito in che cosa consiste la cultura italiana anche attraverso la pressione di conformarmi ad un modello che non ero io.  Lo stesso con il mio modo di vivere nel mio condominio, di rivolgermi ai commessi nei negozi, in mille altre occasioni.  Da etnografo, imparo meglio e con maggiore sicurezza le regole tacite di una società infrangendole deliberatamente — o, più frequentemente, per indole naturale.

Ma allora, se ci sono così tante differenze tra il modo di essere che viene considerato “normale” in Italia (cioè la cultura italiana) e il mio modo di essere, perché ho voluto insegnare qui invece di restare negli Stati Uniti?  Beh, il motivo principale è perché ho trovato simpatici i ragazzi qui — quelli che scelgono lingue sono già diversi dall’Italiano Normale e più come me; scelgono lingue proprio per viaggiare, staccarsi un po’ da qui perché sentono di avere cose dentro che qui non riusciranno a realizzare.  Allora l’interazione in aula dà loro un momento in cui attrezzarsi per realizzare quelle cose.

Inoltre c’è un motivo di fondo: anche se tornassi negli Stati Uniti ad insegnare il francese (l’ho già fatto qualche estate anni fa) o l’italiano, avrei anche lì tanti momenti di attriti, tanti momenti in cui resisto alla pressione di quella società a plasmarmi in un certo modo considerato “normale.”  Quindi attriti per attriti, meglio qui, perché, in quanto straniero, godo del privilegio di poter ignorare, almeno in parte, le regole della “Normalità Ufficiale”. Non avrei quella scusa negli Stati Uniti.

Il mestiere del traduttore, come del resto quello dell’insegnante, è sempre più difficile in Italia; si sente di dare qualche consiglio a chi voglia intraprendere una delle due (o entrambe) le professioni?

Agli studenti di lingue che pensano di intraprendere la strada della traduzione consiglio sempre di farlo da subito, per vedere se reggono lo stress ora dopo ora, giorno dopo giorno, mese dopo mese, come dicevo prima.  Anche prima di aver raggiunto la laurea, gli studenti possono offrirsi come volontari, traducendo il menu dello zio che ha un ristorante oppure facendo il volontario per associazioni come Babels.

In quanto alla loro formazione, il mio consiglio principale — oltre al concetto di imparare ad immedesimarsi culturalmente per poter fare trasposizioni culturali — è quello di cercare di diventare un bravo scrittore o una brava scrittrice nella propria lingua madre, la lingua di arrivo.  Come?  Facendo, ad esempio, una raccolta di brani preferiti e poi cercando di scrivere pezzi analoghi imitando lo stile (in francese questo esercizio si chiama “pastiche”).

Io ammiro in inglese lo stile espositivo lucido e ironico del settimanale “The Economist” e mi esercito a volte a cercare di imitarlo.  Allo stesso modo, in letteratura, lo stile distaccato di Hemingway o quello magniloquente di Thomas Wolfe; bisogna possedere la capacità di cambiare rapidamente stili e registri nella propria madrelingua, per poter creare testi che assomigliano — mutatis mutandisall’originale.

Dicevo prima che il traduttore compie un lavoro analogo a quello dell’autore, partendo da uno stato volitivo “Y” al quale cerca di dare forma nella lingua di arrivo, plagiando liberamente il testo di partenza.  Quindi il traduttore, essendo essenzialmente uno scrittore o una scrittrice, ha bisogno di affinare le sue capacità espressive nella propria lingua madre; e siccome il traduttore entra nella pelle di tanti autori diversi, deve avere un repertorio di stili grandissimo.

Ciò che manca dunque nei corsi di formazione di traduttori, oltre all’insegnamento delle tecniche d’immedesimazione culturale, sono proprio i corsi di scrittura creativa nella madrelingua dei futuri traduttori.

Sono stato lungo, lo so, ma ho cercato di illustrare concetti un po’ diversi da quello che viene detto solitamente a proposito della traduzione, quindi ho avuto bisogno di più spazio.  Spero che i lettori di MELT troveranno spunti per rivedere il loro importante lavoro maieutico.