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Boylan, P. (2014). “Un professore americano a Roma... La formazione scolastica in Italia e negli USA”.
Cooperazione Educativa (La rivista pedagogica del Movimento di Cooperazione Educativa, vol . 63, n. 3 (settembre 2014), pp.7-13. [ISSN 0010-8502]

 
 

Un professore americano a Roma...




La formazione scolastica in Italia e negli USA

Patrick Boylan




A un insegnante immerso nella quotidianità di un istituto scolastico italiano, l'evoluzione del mondo della formazione in Italia, durante questi ultimi decenni, può sembrare assai caotica, con un viavai continuo - e apparentemente casuale - di mode e di parole d'ordine.


Eppure per chi guarda la realtà della Scuola italiana dal di fuori – ad esempio, con gli occhi di un educatore americano da oltre 40 anni nel Bel Paese – questa evoluzione non appare affatto caotica: ha un senso e una direzione intelligibili e costanti. Direzione che gli stessi operatori della Scuola potranno sperare di cambiare (in meglio) solo se ne afferreranno il senso.


Peraltro, l'evoluzione della didattica nella Scuola italiana negli ultimi decenni è andata di pari passo con i cambiamenti avvenuti nel mondo aziendale, nel mondo sindacale, nei partiti, nell'associazionismo, nello stesso tessuto democratico del Bel Paese – e non potrebbe essere diversamente, essendo la Scuola, almeno in parte, causa ed effetto di questi cambiamenti.


Infine va notato che il trapasso della scuola tradizionale e l'affermarsi di nuove finalità formative scolastiche più consone con l'evoluzione del mondo della produzione e dei diritti effettivi di cittadinanza, non costituiscono fenomeni squisitamente italiani. Sono fenomeni globali. Li ha descritti Joel Spring (We)1 nel suo libro Education and the rise of the corporate state, Beacon Press, Boston, 1972.


Nella sua prefazione al volume, il pedagogista e filosofo Ivan Illich (Wi) ha scritto: “Il resoconto di Spring rende chiaro persino ad un miope che lo scopo principale del Sistema della Formazione che è andato delineandosi negli Stati Uniti durante gli ultimi otto decenni è stato quello di consentire il controllo sociale degli individui da parte dello Stato Corporativo. Con mezzi indiretti ma pervasivi ed efficaci, la Scuola prepara gli individui al loro inserimento inconsapevole in un sistema economico-sociale la cui finalità è la produzione efficiente e il consumo disciplinato di sempre più beni e servizi; e tutte le riforme scolastiche – anche e soprattutto quelle in apparenza progressiste, cioè quelle sbandierate dai loro proponenti come emancipatorie, nella migliore tradizione umanistica – sono servite principalmente a rendere più ferreo il controllo sociale.”


Per capire la tesi di Spring, bisogna capire anzitutto il senso del termine “Stato Corporativo”(Wi), da lui adoperato.


Non dovrebbe essere difficile per un italiano con qualche nozione di storia afferrare il senso originario di questo termine: infatti, esso è stato inventato da un italiano. Benito Mussolini l'ha coniato nel 1927 per indicare, nella sua Carta del Lavoro, una organizzazione sociale che pretende di superare i limiti dello Stato liberale e dello Stato socialista. Il corporativismo (o Stato Corporativo), disse Mussolini, "è la pietra angolare dello Stato fascista, anzi lo Stato fascista o è corporativo o non è fascista"2.


Coerentemente con questa visione della società, il parlamento, quale organo deliberante, fu abolito da Mussolini; le leggi venivano dettate direttamente dal governo, ente considerato super partes, sentito prima, però, il Consiglio nazionale delle corporazioni (Wi), un organo composto dalla Confederazione dei Datori di Lavoro, da quella dei Lavoratori e da quella dei Professionisti ed Artisti. Siccome era stata vietata la lotta di classe (e quindi gli scioperi), la Confederazione dei Lavoratori non costituiva un sindacato vero e proprio, bensì un'associazione patriottica pronta a studiare, insieme alle altre due corporazioni, le soluzioni più confacenti per lo sviluppo economico e il bene generale del paese.

La volontà “collaborativa” (o comunque non antagonista) della Confederazione dei Lavoratori non ci deve stupire: i suoi membri, pur essendo operai e impiegati e quindi sfruttati dai ceti dominanti, erano tutti iscritti al partito fascista e quindi pronti a “credere, obbedire e combattere” per il Duce.


Del resto, nel corso della sua storia, anche il sindacalismo rosso in Italia è stato più volte indotto a passare da posizioni antagoniste a posizioni sempre più collaborative, nel trattare con il padronato. Basta pensare all'evoluzione della combattiva CGdL (Confederazione Generale del Lavoro, soppressa sotto il fascismo), diventata poi l'altrettanta combattiva CGIL con la nascita della Repubblica ma poi, quasi subito, annacquata nella Triconfederale con CISL e UIL, infiltrata dal padronato, e oggi sempre più scissa, difensiva e remissiva. Il punto di arrivo di questa azione costante di logorio da parte dei Poteri Forti italiani sembra essere, in un prossimo futuro, la creazione di un sindacato unico collaborazionista sul modello, appunto, della Confederazione dei Lavoratori del ventennio fascista. Questa “soluzione finale” del sindacalismo rosso è stata infatti esplicitamente auspicata nel Piano di rinascita democratica (Wi), elaborata da numerose alte cariche dello stato italiano riunitesi nella Loggia P2 durante gli anni '70.


In ogni caso, il mutamento appena prospettato per l'Italia è già invece un fatto compiuto negli Stati Uniti, e da tempo. Escluse alcune frange di sindacalismo antagonista, i sindacati principali statunitensi collaborano fattivamente con il padronato, ad esempio nel mantenere l'ordine e la disciplina nei posti di lavoro. Durante gli incontri con i Datori di Lavoro, essi espongono le rivendicazioni dei loro iscritti “costruttivamente”, vale a dire, pronti a cederle ai bisogni della produzione. Mussolini non potrebbe desiderare di più.

Va subito ricordato, tuttavia, che lo Stato Corporativo americano, descritto da Spring, si differenzia nettamente da quello mussoliniano, per un aspetto non trascurabile: negli Stati Uniti, il potere non viene gestito da un Dittatore, a favore delle oligarchie economiche e finanziarie del paese, bensì da un Presidente e da un parlamento democraticamente eletti, i quali gestiscono poi il potere a favore delle oligarchie economiche e finanziarie del paese. Dopo le elezioni, infatti, queste oligarchie chiedono il conto di continuo, non attraverso un mussoliniano “Consiglio nazionale delle Corporazioni”, bensì attraverso l'equivalente democratico, le lobby. (Le lobby sono gruppi di pressione finanziati dalle oligarchie economico-finanziario-settoriali per influenzare le decisioni del parlamento. Certi lobbisti arrivano fino a redigere le leggi che i “loro” deputati presentano e fanno votare, come se ne fossero stati gli autori.)


Le elezioni democratiche, dunque, costituiscono una differenza importante tra lo Stato Corporativo statunitense, descritto di Spring, e lo Stato Corporativo di mussoliniana memoria. Negli USA esse garantiscono, anche grazie agli spettacolari e sfavillanti comizi elettorali messi in scena per ogni candidato, la futura accettazione, da parte della popolazione, anche delle misure antipopolari adottate poi dal governo. Siccome il Presidente e il parlamento sono stati “voluti dalla maggioranza della popolazione”, ampiamente informata (o perlomeno intrattenuta) per mesi e mesi, l'americano medio accetta ciò che i “suoi” governanti decidono.


Ovviamente, un certo scontento rimane comunque tra i cittadini bistrattati e possono verificarsi, ogni tanto, manifestazioni di protesta. Ma non le rivolte o i colpi di stato, come avvengono invece sotto le dittature: ecco la differenza. Lo show delle elezioni democratiche, dunque, per quanto dispendioso per i ceti dominanti, garantisce la stabilità e la pace sociale e quindi offre loro un buon ritorno sull'investimento effettuato: è un circo che funziona anche senza il pane.

Ecco un esempio recente che illustra l'efficacia del sistema di controllo sociale messo in atto dallo Stato Corporativo statunitense. Nell'autunno del 2011 il movimento americano Occupy (Wi) ha denunciato a chiare lettere lo strapotere dell'1% della popolazione USA che possiede metà delle ricchezze del paese e che, finanziando le campagne elettorali dei propri beniamini, può far vincere candidati che risponderanno in seguito a chi li ha finanziati, non a chi li ha votati. In una parola, il movimento ha dimostrato di aver capito perfettamente l'inganno delle “elezioni democratiche” in una società con notevoli diseguaglianze economiche. Forte di questa convinzione, il movimento ha inscenato centinaia di proteste, anche clamorose, per svegliare l'opinione pubblica - come l'occupazione della sede della Banca d'America, con tanto di tenda per dormirci la notte - ma poi, dopo aver subito, per alcuni mesi, manganellate brutali e 7.765 arresti, in un crescente silenzio stampa ordito dalle oligarchie che controllano i mass media, i manifestanti hanno gettato la spugna e sono tornati nei ranghi, disciplinatamente. Dopo di che le loro scuole ed università, le loro aziende ed industrie e, naturalmente, le banche e gli istituti finanziari che avevano avversato, sono ritornati alla loro amministrazione ordinaria (business as usual).


Come hanno fatto, dunque, i Poteri Forti statunitensi a formare un'intera popolazione – ivi compresa la componente giovanile, normalmente irruente – a essere così disciplinata e “responsabile”, persino nel contestare? Joel Spring si è posto questa domanda, riflettendo sulle storiche manifestazioni anti-sistema del '68 e sul loro successivo riassorbimento totale dal sistema, proprio come doveva avvenire mezzo secolo dopo con il movimento Occupy. Inoltre Spring si è chiesto come mai la popolazione americana originaria - i pionieri così ferocemente indipendenti e individualisti - ha potuto accettare, a partire dalla seconda metà dell'800 e sopratutto con l'inizio del '900, l'integrazione alienante nelle Corporations, ossia nelle grandi imprese in cui dovevano eseguire attività ripetitive da robot (o da “gorilla ammaestrato”, secondo l'espressione di un capo della Ford)? Come potevano i giovani laureati americani, che sognavano anche loro le frontiere libere (nonché, sotto Kennedy, le nuove frontiere dell'immaginazione) accettare di entrare nei colossi come l'IBM e diventare le formichine di uno Stato Corporativo, sottoposte persino a un codice di abbigliamento aziendale (l'IBM, ad esempio, imponeva giacche e pantaloni di flanella grigia, da cui il romanzo e poi film “L'uomo dal vestito grigio”)?


Spring ha individuato nel sistema scolastico statunitense l'organo principale usato dai ceti dominanti per ottenere questo scopo, un organo, a suo avviso, persino più pervasivo e potente dei mass media. Inoltre ha dimostrato come le pratiche didattiche nuove, introdotte negli anni da educatori progressisti, a partire da Dewey (1859-1952), in realtà servivano a formare gli impiegati (ed elettori) disciplinati e collaborativi appena descritti, proprio quelli che i Poteri Forti desideravano.


Alcuni esempi: l'innovazione del “lavoro di gruppo” che rompeva con lo studio puramente individuale praticato nella Scuola da secoli, serviva, scrive Spring, a formare al lavoro d'équipe nelle aziende e al lavoro di squadra nelle fabbriche. Nelle intenzioni di Dewey, invece, il group work doveva essere empancipatorio, doveva cioè consentire agli allievi di riunirsi spontaneamente intorno a progetti decisi dai componenti stessi per fini loro. Invece la Scuola statunitense e, successivamente, quella italiana hanno adottato il metodo di Dewey a metà soltanto: il lavoro di gruppo è stato introdotto nella Scuola, sì, ma solo per far svolgere collegialmente agli allievi progetti pur sempre imposti dal docente oppure decisi dagli allievi da un rosa di possibilità imposta dal docente. In pratica, il group work abituava i giovani, tendenzialmente individualisti, ad eseguire collaborativamente gli ordini dall'alto come in fabbrica o in ufficio. Storicamente, del resto, la collaborazione tra le classi per i fini dettati dal potere centrale fu “uno dei cardini fondamentali” dello Stato Corporativo fascista – vedi la voce “interclassismo” (Wi).


L'istruzione individualizzata, che doveva consentire a ogni allievo di sfruttare le proprie potenzialità e di assecondare i veri interessi, serviva invece, sempre secondo Spring, a incanalare meglio gli allievi verso traguardi formativi sempre più differenziati: quelli richiesti dalle Corporations e, di riflesso, prefissati dal Ministero (Board of Education). Peraltro “i veri interessi” dei singoli allievi non potevano essere realmente assecondati dagli insegnanti perché questi erano impreparati a tollerare percorsi differenziati, in quanto alle finalità dello studio, nelle proprie classi. Inoltre, i test standardizzati nazionali, sempre più diffusi (e sempre meno controllati dagli insegnanti stessi), imponevano agli insegnanti di preparare i loro allievi per le finalità volute dallo Stato Corporativo.


Viene chiamata in causa da Spring persino l'affissione nelle aule scolastiche, durante gli anni '60, delle parole di John F. Kennedy “Non chiedere ciò che il tuo paese può fare per te, ma quello che tu puoi fare per il tuo paese” e l'affissione di cartelli che reclamizzavano il suo Peace Corps (organizzazione di volontariato internazionale finanziata dal governo USA per rendere più accettabile la presenza americana, anche militare, nei paesi del terzo mondo). Spring vede nella grande disponibilità dei presidi a diffondere questi messaggi “patriottici”, un tentativo di controllo sociale, cioè una volontà di condizionare la gioventù americana, facendole accettare acriticamente la politica domestica e quella estera del proprio governo. Non è vero, dunque, che nella Scuola non si possa fare politica. La si può fare, e si fa... purché sia la politica dello Stato Corporativo.


Infine, sostiene Spring, i docenti progressisti statunitensi si proponevano di combattere l'apprendimento passivo stimolando nei propri allievi il “senso critico”. Ma non accettavano volentieri le critiche ai loro programmi stabiliti. Durante le lezioni di letteratura, ad esempio, mancava in genere un confronto con la classe sugli autori scelti, o sul prevalere della letteratura scritta su quella orale, o sull'eventuale assenza di momenti di scrittura creativa. Le lezioni miravano a sviluppare negli allievi il senso critico degli scritti di questo o di quell'autore, ma non un senso critico dell'impostazione delle lezioni stesse: esse andavano accettate a scatola chiusa. Le lezioni di letteratura, dunque, malgrado gli intenti empancipatori dei docenti progressisti che le conducevano, sono servite soprattutto a rinforzare il controllo sociale, cioè a preparare futuri impiegati aziendali o ministeriali, sempre più capaci di analizzare “criticamente” raccolte di documenti, ma incapaci di criticare il perché di una determinata raccolta o l'uso che il capo ne vuole fare. Impiegati modello, insomma, pronti a “credere, obbedire e combattere”. O a rientrare disciplinatamente nei ranghi dopo l'occasionale protesta - colorita, dissacrante, ma senza una visione di alternativa praticabile.


Naturalmente, le scuole e le università destinate ai figli delle classi dirigenti statunitensi non preparano i giovani a tale servilismo. Tutt'altro: favoriscono la riflessione individuale ed autonoma, indispensabile a un manager di successo. Gli alti costi di questi istituti garantiscono l'accesso ai soli giovani benestanti o cooptati.

Passiamo ora alla situazione italiana.


Già entrate da tempo nel sistema scolastico statunitense descritto da Spring, le parole d'ordine “lavoro di gruppo”, “istruzione individualizzata”, “volontariato sociale”, “sviluppo del senso critico”, sono affiorate in Italia durante gli anni '70 grazie al generoso impegno di tanti insegnanti di punta, sostenuti nelle loro sperimentazioni da una serie di provvedimenti, i Decreti Delegati sulla Scuola, che, finalmente, consentivano loro maggiore libertà.


Queste innovazioni didattiche potevano davvero rinnovare la Scuola italiana, qualora fossero state pienamente realizzate. Purtroppo, ciò non è avvenuto: in genere, veniva replicata l'esperienza USA. Cioè la nuova didattica, praticata solo a metà, è servita soltanto a preparare i giovani per le esigenze del nuovo Stato Corporativo emergente.

Negli anni '70, infatti, l'Italia si stava aziendalizzando; l'economia stava passando da quella (prevalentemente) agricolo-industriale a quella (prevalentemente) post-industriale e terziario. Servivano, come nell'America degli anni '50, giovani che accettassero volentieri di portare un vestito di flanella grigia, di lavorare in équipe come formichine, di autoformarsi ma per traguardi predefiniti dai capi e di gettarsi nel volontariato e nelle missioni internazionali per assecondare la presenza dell'Italia nel mondo. Ivi compresa quella delle sue truppe, dal 1991 coinvolte in ben sette guerre, la maggior parte illegali secondo le norme internazionali e tutte illegali secondo l'articolo 11 della Costituzione italiana. (Ma nel nuovo Stato Corporativo post '68, le guerre non si contestano. Nemmeno si discutono. Si ignorano e basta.)


In risposta a queste nuove esigenze, dunque, gli insegnanti progressisti degli anni '70 hanno cominciato a predicare il nuovo vangelo della didattica incentrata sull'allievo, sulla società, sul mondo, sul senso critico, sull'autoapprendimento, sul lavoro di gruppo – sostituendo un catechismo vecchio con uno più adatto alle nuove esigenze del mondo della produzione. Ma sempre catechismo era - non emancipazione - esattamente com'era avvenuto mezzo secolo prima negli USA.


Esaminiamo ora un esempio pratico di tutto ciò - cioè, di come i bisogni mutevoli dello Stato Corporativo abbiano plasmato, di epoca in epoca, la didattica praticata nella Scuola italiana, all'insaputa degli stessi insegnanti - convinti invece di aver scelto liberamente la loro didattica per motivi pedagogici e scientifici, o per scopi emancipatori o, più banalmente, in ossequio all'ultima moda educativa.


Prendiamo il caso dell'insegnamento scolastico delle lingue straniere. La seguente tabella confronta, da una parte, l'evoluzione della forma delle aziende di punta in Italia, tra il 1950 e il 2000 e di conseguenza il tipo di competenza nelle lingue che gli impiegati di queste aziende dovevano avere e, dall'altra parte, le innovazioni didattiche “apparse spontaneamente” in quegli stessi anni, apparentemente in risposta alle nuove teorizzazioni della linguistica e della glottodidattica oppure in risposta a qualche moda passeggera.


L'evoluzione delle aziende italiane e, di riflesso,
l'evoluzione, nella Scuola italiana, dei metodi per insegnare le lingue straniere
(con riferimento alle sole aziende e ai soli docenti
trendsetting, ossia di punta, di ogni epoca) 3

Tipologia delle aziende di punta

Tipologia dei contatti con i loro fornitori e clienti stranieri (alloglotti)

Bisogni formativi, nelle lingue straniere, del personale aziendale

Epoca dell'insegnamento delle lingue con il vecchio metodo grammaticale - traduttivo

1. Fino agli anni '50, prevalgono le
aziende naziona­li con direzione, uffici e stabili­menti interamen­te in Italia.

La produzione e le vendite avvengo­no in Italia. Le eventuali importa­zioni ed esportazioni avvengono tra­mite corrispondenza e rare telefonate in lingua, oppure tramite agenti au­toctoni sul posto, in genere che co­noscono l'italiano.

Sono sufficienti conoscenze gram­maticali e capacità traduttive. Il lessico richiesto appartiene ad un co­dice ristretto e ripetitivo. Non servo­no capacità interattive (tranne per le rare telefonate, le quali sono comun­que di tipo rituali).

Prima apparizione del nuovo metodo comunicativo (dialoghi, video) per insegnare le lingue

2, Dagli anni '60, aziende sempre di più internazio­nali, con propri uffici di vendita e di rappresentanza all'estero.

La produzione rimane interamente nazionale, ma il marketing e la ven­dita sono dislocati dall'estero, in uf­fici con staff autoctono e manager italiani, i quali parlicchiano la lingua locale sufficientemente per impartire ordini e per leggere documenti (fanno anche ricorso ai traduttori).

In Italia bastano le conoscenze grammaticali-traduttive di cui so­pra. All'estero, invece, i manager ne­cessitano di una conoscenza comuni­cativa delle lingue, almeno a livello (pre-)intermedio, anche senza capa­cità ne­goziale e con fraseologia limi­tata al business e ai convenevoli.

Appare l'insegnamento comunicativo task-based e con adattamento alla cultura della lingua studiata

3. Dagli anni '70, aziende sempre di più multi-nazionali, sul piano societario o comunque su quello produttivo-distributivo.

Vengono creati all'estero stabilimenti di produzione per il mercato locale e aziende di distribuzione: La casa madre fornisce i quadri, che devono capire bene la lingua e la cultura lo­cale per poter negoziare con effica­cia, dalle trattative sindacali ai con­tatti con i governanti del paese.

In Italia, ai reparti internazionali serve una conoscenza comu­nicativa intermedio delle lingue, con capacità interattive per ri­cevere le occasionali visite dall'este­ro. Ai quadri all'estero servono invece le conoscenze comunicativo-cultu­rali avanzate utili per realizzare un task (progetto).

Appare l'insegnamento post-comunicativo con adattamento a interlocutori multiculturali

4. Dagli anni '90, boom di aziende transnazionali (globali): gli im­pianti all'estero producono in si­nergia tra di loro, non autonoma­mente in ogni paese, come in precedenza.

La produzione e la distribuzione sono “distribuite”: i componenti di­segnati nei paesi A e B vengono rea­lizzati in C e D, asssemblati in E e F e venduti globalmente. Le equipe di dirigenti o di tecnici sono multicul­turali; lo staff viene dislocato in vari paesi di frequente, spesso insieme ai familiari, da formare linguistico-culturalmente, anche loro, per garantire il loro inserimento locale.

Manager e staff necessitano della co­noscenza comunicativo-culturale di cui sopra, ma anche di capacità inter­culturali per riconoscere ed assimila­re le norme dei propri interlocutori stranieri e. se eterogenei tra di loro, per creare “terzi spazi” ad hoc, in cui favorire la collaborazione e le intese. I familiari necessitano di conoscenze comunicativo-culturali di livello almeno elementare.



Questa tabella illustra come negli anni indicati – anni in cui si succedettero diversi metodi per l'insegnamento delle lingue – a trainare i cambiamenti furono i bisogni strutturali delle aziende. Gli insegnanti di lingua più in sintonia con i loro tempi colsero quei bisogni e li tradussero in pratiche didattiche innovatrici. Alcuni linguisti universitari poi, accorgendosene, svilupparono le relative teorizzazioni e un nuovo metodo nacque, facendosi strada poco a poco. Gli insegnanti che lo adottarono pensavano che esso fosse generato spontaneamente come moda, oppure nato di sana pianta dalla ricerca dei linguisti.


Va sottolineato una volta per tutte: non si vuole affatto criticare il lavoro di un insegnante che cerca di impartire conoscenze spendibili anche nel mondo del lavoro. Anzi, ben vengano. Il problema è quello di non fermarsi lì, cioè di non fermarsi a metà. Queste conoscenze danno una presa sul mondo reale? Bene! Vanno usate per studiare il mondo reale nella sua interezza. Anche le poesie fanno parte di quel vasto mondo. Anche - apriti cielo! - la politica.


Ed ecco che si sentono le solite obiezioni: “Ma io mi sono sempre basata sugli interessi degli allievi, non c'era bisogno di dirmelo!” Può darsi. Gli interessi, però, sono una cosa; i bisogni conoscitivi sono un altra e sono quelli ciò che bisogna ricercare. “Ma io ho molti allievi che non hanno il benché minimo bisogno conoscitivo!” Falso. Possono sembrare non averlo per via dei rapporti instauratisi in aula: basta cambiare quei rapporti cambiando le regole del gioco. “Ma io non posso parlare di politica perché sono gli stessi allievi a non voler sentirne parlare!” E allora non parlare di politica usando i termini della politica! Puoi descrivere la lotta NATO/Russia per l'Ucraina come un Spy Story, con intrighi e contro-intrighi; così smentisci la versione ufficiale dei fatti raccontata in TV e rendi evidenti le mire espansionistiche dell'Occidente.


Quindi, adattarsi supinamente alle esigenze dello Stato Corporativo, questo no! Ma adattarvisi, smontandolo e progettando anche un mondo alternativo, questo sì! Adattarvisi per poi, nel contempo, soddisfare i bisogni conoscitivi realmente sentiti dagli allievi, i quali, opportunamente sollecitati, potrebbero cominciare a chiedersi non solo il perché di una certa zuffa avvenuta a scuola ma anche di una certa guerra in corso nel mondo. Non solo il perché dell'incanto di una certa musiche rap ma anche di una certa poesia o di una certa frase biblica.


Per essere veramente emancipatorie, dunque, le innovazioni didattiche non devono essere praticate a metà o ritualmente, come troppo spesso è avvenuto in passato. E non saranno meri rituali se vi si ricorre per facilitare la ricerca di risposte a questioni realmente sentite come importanti dagli allievi. Partendo anche da questioni inizialmente banali o triviali (come la zuffa o il rap appena menzionati). Cercando di soddisfare i bisogni conoscitivi realmente sentiti dagli allievi, si profilerà spontaneamente la necessità di smontare un paradosso riscontrato (sviluppando dunque il “senso critico”), di praticare il “lavoro di gruppo” realmente autogestito (scoprendo che il sapere è socialmente costruito) o di proseguire a casa un’indagine iniziata in classe (scoprendo che lo “studiare autonomamente” è diverso dal fare un compito a casa – e arricchisce di più).

L'insegnamento che sarebbe davvero auspicabile per la scuola del futuro è dunque un insegnamento altamente sovversivo. (L'accenno è al libro Insegnamento come attività sovversiva di Neil Postman (We) e Charles Weingartner ed è, come il volume di Spring, anch'esso un prodotto degli anni '70 americani.)

Ossequioso in apparenza alle esigenze dettate dallo Stato Corporativo, l'insegnante sovversivo educherà, dietro le porte chiuse dell'aula e senza fare proclami (per non invitare misure repressive), al dubbio sistematico sulle stesse materie ufficiali insegnate. Insegnerà quelle materie solo nella misura necessaria perché i suoi allievi non vengano poi emarginati in seguito e discuterà e concorderà questa scelta con loro. Per il resto, insegnerà a usare gli strumenti che le materie ufficiali inculcano per gli scopi conoscitivi decisi di volta in volta dalla classe. Soprattutto, cercherà di divertirsi nel farlo.

Le esigenze dello Stato Corporativo, dunque, non ci devono far paura. Il sapere è uno ed è perciò sempre possibile ricercare e soddisfare i bisogni conoscitivi reali degli allievi all'interno di quelle esigenze. Basta reinventarsi di continuo.



1In tutto il testo i termini seguiti dal segno “(Wi)” costituiscono una voce consultabile nella Wikipedia italiana, quelli seguiti dal segno “(We)” nella Wikipedia di lingua inglese.

2Discorso del 1º ottobre 1930, Wikipedia, voce Politica economica fascista

3Adattato da: To be or not to be: success or failure in intercultural communication, di Patrick Boylan, in D. Lynch e A. Pilbeam, From past to future in intercultural understanding, LTS, Bath, 2000, pp.106-116.