31.10.2018  ©2018 - Patrick Boylan – patrick boylan.it

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Boylan, P. (2018). “Globalizzazione e nazionalismi: il ruolo virtuoso di una assimilazione culturale delle lingue”
in: 
EuropaVicina, 38, Anno XVIII (Ottobre 2018), pp.11-12 [periodico auth. Trib.Verona, n. 1272 del 2 giugno 1997]
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Globalizzazione e nazionalismi: il ruolo virtuoso
di una assimilazione
culturale delle lingue



L'imperialismo linguistico-culturale dell'inglese, nella nostra era globale, va contrastato: (1.) insegnando di più le altre lingue come cultura; (2.) insegnando l'inglese nelle sue diverse varietà, imparate come espressioni di formae mentis anche non anglosassoni, eventualmente inseme a qualche varietà di ELF; (3.) insegnando la competenza multilinguale.

The linguistic-cultural imperialism of English, in our global era, can be contrasted by: (1.) increased teaching of other languages as culture, (2.) teaching the various varieties of English as expressions of (not necessarily Anglo-Saxon) mindsets, together with ELF varieties, as needed; (3.) teaching multilingual competence.



L'attuale confronto tra globalisti e nazionalisti ha delle ramificazioni in ogni aspetto delle nostre vite – persino nell'apprendimento e nell'insegnamento delle lingue straniere.

Il gestore di una scuola di lingue e l'insegnante di lingua in una scuola pubblica devono infatti decidere quale varietà di una determinata lingua insegnare. Se optano per la varietà “alta”, quella più prestigiosa, quella del ceto sociale dominante che la usa per egemonizzare culturalmente sia i suoi ceti subalterni, sia (eventualmente) i suoi ex-coloni, compiono una scelta “purista” o “nazionalista”.

Invece se decidono di insegnare una varietà “neutra” della lingua che offrono, svuotata dai suoi connotati culturali e perciò “super partes”, compiono una scelta “globalista”. Preparano linguisticamente dei futuri impiegati facilmente collocabili ovunque nel mondo, simili ai mobili “neutri” e facilmente smontabili/rimontabili dell'azienda Ikea.


Come si traduce, nella pratica, queste due scelte appena illustrate a grandi linee: quella nazionalista e quella globalista?

Prendiamo l'esempio di una scuola di lingue che offre il francese. Chi deve mandare in aula: solo insegnanti che parlino il francese del ceto colto parigino? E che usano materiali didattici che fanno sentire solo quel modello, all'esclusione delle varietà belga, svizzera, senegalese, franco-canadese e altre? (Questa sarebbe la scelta nazionalista.) Oppure la scuola deve offrire corsi di francese che fanno apprezzare ed assimilare agli allievi non solo la cultura dei ceti colti d'Île-de-France, ma anche la cultura e i modi di dire e di fare delle altre regioni e delle altre realtà francofone nel mondo? Oppure, alternativamente, corsi basati sul français fondamental semplificato e privo di ogni connotato culturale? (Queste sarebbero le scelte globaliste.)

Le stesse domande si pongono per l'insegnamento della lingua inglese. Certo, la forte ascesa economica e politica degli Stati Uniti – e, in misura minore, delle altre nazioni anglofone come Australia, India, Singapore – ha fatto traballare il trono di Sua Maestà, l'inglese RP (quello della pronuncia colta britannica). E difatti, da qualche tempo, le scuole d'inglese accettano di ingaggiare insegnanti non solo britannici, ma anche americani, australiani, indiani o singaporiani. Alcuni ingaggiano addirittura non-nativi-parlanti purché padroni della lingua e cultura – e hanno ragione a farlo: questi conoscono, infatti, meglio di chiunque, per averla percorso, la strada da intraprendere per parlare l'inglese in modo fluente ed idiomatico.

Tuttavia, malgrado questa apparente apertura, i materiali didattici usati per insegnare l'inglese continuano, nella maggior parte dei casi, a riprodurre gli accenti e i modi di dire e di fare del Regno Unito. O meglio, della sola Inghilterra – di regola, infatti, vengono tralasciati gli altri popoli del Regno Unito (gli scozzesi, i gallesi, gli irlandesi del nord), con i loro accenti e i loro modi di dire e di fare. In quanto poi ai diversi popoli di madrelingua inglese nel mondo, come i giamaicani o i sudafricani, o le comunità di parlanti non-nativi d'inglese come i funzionari dell'UE con il loro Euro-English (http://bit.ly/euro-english), per la maggior parte degli insegnanti d'inglese, questi popoli e queste comunità semplicemente non esistono. Eppure i materiali didattici per farli vedere e sentire ci sarebbero, e non solo in Internet. E' del 2004 il corso d'inglese Culture Café pubblicato da Otava (uno dei primi a far sentire voci non anglosassoni, anche se costituiscono solo il 3% delle registrazioni) mentre è del 2012 il più rappresentativo Breakthrough Plus della Macmillan.


Il “nazionalismo” dei tradizionali corsi di lingua inglese è stata denunciata come “imperialismo linguistico-culturale” sin dal 1998 da linguisti come Alistair Pennycook e Robert Phillipson. Nel 2001, i linguisti Jennifer Jenkins e Barbara Seidlhofer proposero, come soluzione, l'insegnamento della lingua inglese in una forma “neutra” denominata ELF: English as a lingua franca. Si tratta dell'uso effettivo della lingua inglese da parte di parlanti non nativi in un determinato ambiente – per esempio, il già menzionato Euro-English. Attraverso le loro continue interazioni, i funzionari UE a Bruxelles e Strasburgo hanno foggiato una loro lingua inglese che passa per essere “acculturale” – anche se, in realtà, essa veicola una cultura ben precisa, quella appunto della burocrazia UE. Vedi http://bit.ly/eurospeak per una descrizione della sua forma deteriore, l'Eurospeak.

Come per le lingue storico-naturali, l'ELF ha dunque i suoi “nativi parlanti” che decidono de facto se una forma linguistica sia ammissibile o meno. Si tratta, ben inteso, di parlanti che sono nativi per “diritto di appartenenza” e non per “diritto di nascita” (ossia per il fatto di essere stati cresciuti in quel gergo). Questa auto-regolazione di un gergo comune tra cooptati è, peraltro, un meccanismo presente in tutti gli “in group”.

Il linguista britannico David Crystal (http://bit.ly/crystal-2) avanza l'ipotesi che le forme elaborate e “approvate” dai non-nativi-parlanti possano – alla lunga – imporsi anche sui parlanti nativi, per via dello schiacciante peso numerico dei non-nativi.


In conclusione, un insegnante di lingua e il gestore di una scuola di lingue si trovano inevitabilmente davanti ad un (apparente) dilemma con due esiti ugualmente insoddisfacenti: devono fare scelte nazionalistiche o globalistiche nell'impostare il corso di lingua che intendono offrire?


La risposta è una sola: come per qualsiasi dilemma con due esisti entrambi insoddisfacenti, bisogna cercare una terza via che ne sia una sintesi.


Ad esempio, per quanto riguarda la politica europea, se si ritiene criticabili entrambi i protagonisti in campo (globalisti, nazionalisti), si può cercare, come terza via, di rifondare una Europa dei popoli che, internazionalista e non nazionalista, ponga fine all'Europa delle banche e dell'alta finanza globale. I recenti accordi sul clima e sulla proibizione delle armi nucleari, per quanto imperfetti e parzialmente disattesi, dimostrano che le terze vie sono praticabili, se c'è dietro una sufficiente spinta popolare.

Nel caso dell'insegnamento linguistico, la ricerca di una terza via significa ricordare ai globalisti delle multinazionali che le lingue vanno apprese come formae mentis culturali. E che un siffatto apprendimento comprende e oltrepassa quello puramente utilitario (“stile Ikea”): rende gli allievi capaci di comunicare interculturalmente.

Significa poi ricordare ai nazionalisti che è miope voler insegnare una sola lingua e una sola varietà di quella lingua in una scuola di qualsiasi tipo. Andrebbe invece favorito il multilinguismo e riconosciuto la piena dignità di ogni idioma, per quanto “deviante” dalle norme del modello originario da cui deriva.


Quali sono gli effetti pratici di questi due orientamenti?

Nella scuola d'obbligo, per esempio, bisogna rivendicare l'insegnamento di una maggiore diversità di lingue, ivi comprese le varietà “devianti” se sono quelle che gli allievi riscontreranno con maggiore frequenza. Ad esempio, agli allievi delle scuole del sud est asiatico andrebbe insegnato, accanto a una delle varietà standard d'inglese, anche il Southeast Asian Businessman's English, un ELF.

In una scuola europea, potremmo invece immaginare un corso di lingua inglese – destinato ad una classe di adolescenti amanti del rap – che faccia assimilare loro il Black English e la sua cultura, contrastandolo con le varietà standard d'inglese che vengono imparate in parallelo e utilizzando, come chiave interpretativa, i concetti di ribellione e di conformismo.

Per quanto riguarda le scuole di lingue, esse dovrebbero impegnarsi maggiormente ad offrire più lingue diverse al loro pubblico, educandolo, attraverso conferenze tenute presso circoli e associazioni, ad optare per l'apprendimento di quelle meno studiate – per esempio, il cinese o il tedesco. All'ovvia obiezione “Ma il mondo del lavoro chiede solo l'inglese!”, si può rispondere così: “Il mondo del lavoro non chiede affatto solo l'inglese; chiede anche collaboratori che conoscano, appunto, il cinese o il tedesco. Se hai imparato l'inglese, troverai più offerte di lavoro, è vero; ma affronterai, nelle selezioni, una concorrenza spietata: siccome tutti studiano l'inglese, ci sarà sempre chi lo sa meglio di te. Mentre se hai appreso il cinese o il tedesco o un'altra lingua, troverai meno concorrenti e più disponibilità da parte dei selezionatori.”


Ma il vero punto essenziale è un altro.

Quale che sia l'idioma che scegli d'imparare o d'insegnare, devi puntare, sin dall'inizio, sull'acquisizione della cultura e della forma mentis del popolo che ha creato e che usa quel idioma. Solo così perverrai a cogliere ciò che è particolare in quel popolo e la sua lingua (i valori “nazionali”) ma anche a cogliere ciò che ci riunisce tutti quanti e ciò che è davvero universale nell'essere umano (i valori globali). In sostanza, l'imperialismo linguistico va combattuto, facendo apprendere non solo le lingue surrogate, ma anche e soprattutto le lingue storico-naturali in tutta la loro varietà, imparate come espressioni di particolari formae mentis.

E' dunque un abbaglio ritenere di dover decidere tra globalismo e nazionalismo, sia in politica che nell'apprendimento linguistico. Esiste una terza via che concilia i due campi e bisogna scegliere quella.




Patrick Boylan, past professor of English for Intercultural Communication at “Roma Tre” University, Rome, is a pioneer in the teaching of languages as culture, i.e. as new "wills to be" producing new "wills to mean". He was in fact the first to theorize hometown-based ethnography, Stanislavskian techniques, and ethnomethodological breaching experiments both in university language teaching and in teaching cross-cultural communication to business and government negotiators. He holds a degree in English and psychology from Saint Mary's College in his native California, a DES in literary stylistics from the Sorbonne and a specialization in audio-visual FLT methodology from the École Normale at Saint-Cloud. An invited lecturer at numerous universities in Italy and abroad, Boylan has served for years on the Board of the Society for Intercultural Education, Training and Research (Europe). He is also co-founder and vice-president of SIETAR-Italia and past Board member of the International Association of Language and Intercultural Communication, and the Italian Association of English Studies. He participated with success in PICTURE, an 18-nation European Union research project on intercultural communication. He is currently on the Editorial Board of CULTUS: the journal of intercultural mediation and communication.