
Come
vengono trattati i Lettori? Perché mi riguarda?
Ti
sei mai chiesto perché sorgono spesso delle difficoltà
pratiche quando hai a che fare con i Lettori?
Spesso
non riesci a trovare le informazioni che ti servono sui Lettori:
infatti, i loro nomi, l'orario e l'aula dei loro corsi, ecc. non
appaiono nell'Ordine degli studi o nelle bacheche luminose.
Devi cercare davanti alla stanza Lettori (se qualcuno non ha
strappato il foglio!).
Spesso
non riesci a seguire le lezioni di lingua tenute dai Lettori,
per via dell'alto numero di sovrapposizioni con altri corsi.
Invece le lezioni nelle materie complementari (ad esempio, le
linguistiche teoriche) raramente hanno sovrapposizioni.
Come mai? Ti sei iscritto a Lingue e secondo la logica
dovrebbero essere i corsi di lingua ad avere priorità,
no?
Se
dai l'esame con un Lettore, lui o lei non può firmare il
tuo libretto; devi aspettare l'esame di un “corso
ufficiale”. E se, dopo un anno accademico, non hai dato
questo secondo esame, il tuo voto con il Lettore “sparisce”
e devi rifare l'esame ex novo. Invece l'esonero di un “corso
ufficiale” può durare anni, fin quando non dai
l'esame finale. Perché questa discriminazione
contro l'esame dei Lettori?
Sempre
a proposito dell'esame dei Lettori, non puoi sapere com'è
andato perché non vengono affissi i voti per le diverse
prove che lo compongono (l'ascolto, la lettura, la scrittura, il
parlato). Questo ti impedisce di sapere in quale settore
devi migliorare. Alcuni Lettori fanno uno strappo alla
regola e, a tu per tu, dicono i voti. Ma perché
devono farlo di nascosto?
Se
non superi l'esame dei Lettori al primo appello, hai chiuso –
non c'è un secondo appello e i Lettori non possono fare
nemmeno gli appelli straordinari.
Fermiamoci
qui e chiediamoci: come mai tutte queste complicazioni dal
momento che – come si è appena detto – ti sei
iscritto a Lingue e secondo la logica dovrebbero essere i corsi
di lingua ad offrirti tutte le facilitazioni che ti servonno?
La
risposta è semplice: nel
sistema universitario italiano, i corsi di lingua tenuti dai
Lettori non sono considerati corsi di lingua.
Solo i corsi di “linguistica delle lingue” (in cui
però studi il sistema e non come esprimerti realmente)
vengono considerati corsi di lingua.
Questo
perché l'Università considera i Lettori (i tuoi
docenti di lingua) come “non docenti” – pari ai
portieri, alle donne di servizio, ai tecnici del laboratorio,
ecc.
Ma
perché questa strana anomalia (che non esiste in nessun
altro paese
del mondo)? Perché l'Università umilia i
Lettori e ti complica la vita ogni volta che hai a che fare con
loro?
Ci
sono due risposte possibili: una risposta breve e semplice,
l'altra più complessa e più vera.
Cominciamo
con la prima.
RISPOSTA
BREVE
Facendo finta che
i lettori non siano veri docenti (che diano veri voti) ma solo
tecnici o aiutanti, l'Università:
può
pagarli di meno. Infatti, l'Università paga i
lettori la metà di un professore regolare;
può
risparmiare sugli spazi. Mentre ogni docente regolare ha un
ufficio, l'Università può ammucchiare i lettori
(una ventina) in una unica stanza, senza finestre, con un unico
computer non sempre funzionante, senza accesso diretto alla
fotocopiatrice, addirittura (all'inizio) con 3 cm. di acqua per
terra quando pioveva;
a
seconda del contratto, può mandarli via in quanto non
sono di ruolo (sono in pratica precari a vita);
non
deve destinare loro i fondi per la ricerca concessi dal
Ministero, i quali possono dunque essere ripartiti tra i soli
professori ufficiali;
non
deve ammetterli alle riunioni del Consiglio di Facoltà o
del Corso di Laurea per sentire direttamente, da ognuno di loro,
la propria opinione sulle condizioni di lavoro, sui programmi di
laurea, sull'area di loro competenza specifica in quanto
“esperti” (l'insegnamento delle lingue). E'
vero che in pratica qualche voce hanno grazie alle riunioni
informali per area linguistica; ma secondo quanto prevede la
legge per la loro categoria, i lettori devono solo credere,
obbedire e tacere.
Perché
questo trattamento di serie B? (A dir poco! Le
vessazioni morali che subiscono hanno contribuito
– almeno
in un caso – a portare una lettrice al suicidio: vedi
qui.)
A mio avviso, non
è
soltanto per risparmiare soldi e per avere a disposizione
lavoratori subalterni altamente ricattabili, come può
sembrare a prima vista (e come effettivamente è nella
maggior parte dei lavori precari). Qui c'è
qualcos'altro dietro, qualcosa di specifico
all'Università.
Quindi passiamo ora alla
spiegazione più complessa ma più vera a cui ho
accennato prima.
RISPOSTA
PIÙ COMPLESSA MA
PIÙ VERA
C'è
di mezzo, a mio parere,
sia
una questione culturale,
cioè la vostra formazione
sia
una questione materiale,
cioè, la questione delle poltrone da spartire in Facoltà.
1.
LA QUESTIONE CULTURALE
Tanti
autorevoli docenti hanno riconosciuto che vige ancora, in gran
parte dell'insegnamento universitario e soprattutto nel settore
umanistico, il vecchio idealismo gentiliano (quello propinato dal
Ministro fascista della Pubblica Istruzione Giovanni Gentile).
Secondo questa filosofia, le conoscenze “materiali”
sarebbero pseudo-conoscenze, senza valore intrinseco.
Prendiamo, ad esempio, il
caso dell'insegnamento “pratico” delle lingue.
Secondo un idealista gentiliano, tale insegnamento sarebbe da
considerarsi un mero tecnicismo. Un docente idealista si
rifiuterebbe di occuparsene, ritenendolo al di sotto della sua
dignità. Direbbe che il vero sapere (da trasmettere agli
studenti) consiste nelle sole spiegazioni grammaticali o
storiche.
Ma è vero,
tutto questo?
Non mi
sembra.
Infatti, se il
sapere fosse soltanto concettuale, allora nessun professore di
archeologia si “sporcherebbe le mani” (letteralmente)
insegnando praticamente ai suoi studenti come fare gli scavi.
Invece, vediamo proprio i migliori docenti di archeologia scavare
nel terreno insieme ai loro studenti (poiché è nel
modo in cui fai lo scavo che trovi la verità dei reperti
che dissotterri). Soltanto i docenti di archeologia “idealisti”
rimangono inchiodati alle loro cattedre ad insegnare il concetto
di “scavo” e la storia dell'archeologia.
Se
il sapere fosse soltanto concettuale, allora nessun professore di
architettura si “sporcherebbe le mani” (anche qui,
spesso letteralmente) correggendo i disegni dei suoi studenti.
Invece, vediamo proprio i migliori professori di architettura
passare ore e ore sui tavoli dei loro studenti, facendoli capire
perché un loro disegno va o non va. Soltanto i
docenti di architettura “idealisti” si accontentano
di svolgere lezioni ex-cathedra e di lasciare al caso la
formazione “pratica” dei loro
laureati. Purtroppo,
diversamente da ciò che avviene a Archeologia e a
Architettura, a Lingue pochi sono i docenti ufficiali che
accettano di “sporcarsi le mani”, insegnando agli
studenti a relazionarsi e ad esprimersi in lingua, visionando i
video girati dagli studenti durante le loro ricerche sul campo e
correggendo i loro elaborati. Bisogna riconoscere, tuttavia, che
coloro che non lo fanno hanno una giustificazione. Infatti, gli
attuali regolamenti dei corsi di laurea in lingue sembrano
prevedere i soli insegnamenti di stampo idealista (come certe
correnti della linguistica teorica) o tutt'al più
neopositivista (come la descrizione empirica, grammaticale o
sociolinguistica, di una determinata lingua).
Naturalmente,
gli attuali regolamenti potrebbero essere
interpretati estensivamente in maniera tale da giustificare
l'insegnamento della lingua viva da parte di un docente ufficiale
in un corso ufficiale (come cerco di fare nei miei corsi). Ma,
chiaramente, ogni docente ha i suoi interessi scientifici e
pertanto questa scelta non può essere condivisa da tutti,
certamente non nel quadro degli attuali ordinamenti. Per i più,
far interiorizzare agli studenti la lingua viva non è
nemmeno il compito di un corso di laurea in lingue.
Dunque
l'insegnamento vivo delle lingue non viene considerato una “vera”
disciplina da molti docenti di lingue. Che conseguenze ha questo
atteggiamento ostile, che a volte si tinge persino di disprezzo?
(NOTA STORICA: Non si tratta di una
esagerazione. Chi scrive ha dovuto lottare per decenni per
poter pronunciare le parole “lingua viva” nelle
riunioni del suo corso di laurea in lingue, senza provocare
sbuffi, segni in impazienza, persino fischi da parte dei
colleghi.)
Come conseguenza
organizzativa, il compito di far interiorizzare agli studenti
almeno un po' di lingua viva viene per forza rilegato ad una
categoria di “docenti non docenti”,
ossia i lettori. Anzi, dal momento che apprendere la lingua
viva sarebbe una mera “pseudo-conoscenza” effimera
(secondo la visione idealista gentiliana), potremmo pure
chiamarli “pseudo-docenti”.
E'
chiaro dunque che uno pseudo-docente non può che dare uno
pseudo-voto. E' altrettanto chiaro che uno pseudo-voto non va
reso pubblico fin quando un docente “doc” (ufficiale)
non l'abbia incluso nel voto complessivo da lui assegnato,
facendolo diventare, come per magia, finalmente
reale.
Sembra assurdo questo
gioco di parole? Infatti, lo è. E chi lo dice
è un docente costretto dai regolamenti a recitare questa
commedia pirandelliana da anni. Ma così va il
mondo. E continuerà ad andare così fin quanto
qualcuno (io? voi? noi?) non decida di protestare –
vigorosamente – il modo in cui vengono defraudati,
ripeto defraudati:
un'intera
categoria di docenti, i cui diritti e la cui dignità
vengono costantemente lesi;
un
intero paese, l'Italia, il cui bisogno di saperi nuovi per
fronteggiare la globalizzazione – in particolare i saperi
della mediazione linguistico-culturale – viene
costantemente disatteso;
intere
generazioni di giovani, le cui giuste pretese, nell'iscriversi a
Lingue, vengono costantemente illuse per via della poca
considerazione accordata all'insegnamento vivo delle lingue
vive:
la
pretesa di conseguire una laurea che dia sbocchi reali,
la
pretesa d'imparare le lingue culturalmente
e
quindi in maniera
immanente
e dunque operativamente.
Infatti,
non c'è il primo tipo di conoscenza senza il secondo e
non c'è il secondo senza il terzo, come ha spiegato il
grande filologo italiano Antonino Pagliaro (Opere
I, 1993 [1930],
p.101). Del resto, l'aveva già detto Anassagora di
Clazomene: “L'uomo è il più intelligente
degli animali perché ha le mani” (in Aristotle,
De part. anim.
iv. 10; 687).
C'è
una seconda conseguenza della scelta – in parte
Ministeriale e in parte della nostra Facoltà – di
concepire l'apprendimento linguistico con i canoni sprezzanti
dell'idealismo gentiliano. “Essendo l'insegnamento
'pratico' delle lingue una materia con poco valore culturale –
dicono i più – gli studenti di lingue devono seguire
un grande numero di corsi umanistici complementari.”
Così sui 180 crediti che bisogna ottenere per laurearsi,
meno di un terzo vengono assegnati allo studio delle lingue, cioè
alla materia di specializzazione; i due terzi vengono attribuiti,
appunto, alle materie umanistiche complementari!
“Ma
– state obiettando verosimilmente – non sarebbe
possibile concepire un insegnamento delle lingue con canoni non
idealisti,
un insegnamento di
per sé
'culturalmente
completa', tale da non richiedere tutti quei corsi complementari
o solo una parte?”
Certamente.
Non
esiste, infatti, soltanto la maniera meccanica d'insegnare le
lingue che viene praticata dalle scuole commerciali. Non
esiste soltanto quel modo riduttivo d'insegnare le lingue che
molti di noi abbiamo conosciuto a scuola. Certo, se
l'insegnamento delle lingue all'Università fosse portato
avanti come nelle scuole commerciali o come nelle lezioni di
lingua a Scuola, ci vorrebbe senz'altro l'apporto di diverse
materie umanistiche complementari per dare allo studente una
formazione culturale completa. Ma
non esistono soltanto queste due modalità di
insegnamento.
Esiste
anche un insegnamento vivo delle lingue vive – praticabile
a livello universitario – che s'ispira all'umanesimo:
quello vero che sconfisse la retorica vana del
tardo-scolasticismo e che oggi sarebbe senz'altro in grado di
sconfiggere l'idealismo gentiliano così diffuso
ancora.
Svolto in
quest'ottica, un insegnamento vivo delle lingue vive, dunque,
sarebbe teorico e pratico insieme. Incorporerebbe necessariamente
elementi di riflessione filosofica e di riflessione storica
proprio per portare gli studenti – negli esercizi e nelle
attività di ricerca che conducono in aula e sul terreno
per acquisire le necessarie competenze “pratiche” –
a relazionarsi ed ad esprimersi in lingua consapevoli
degli impliciti culturali
storicamente
determinati. Sarebbe dunque un insegnamento di
per sé
altamente
formativo sul piano culturale.
Come
si realizzerebbe un siffatto insegnamento in pratica? Una
possibile impostazione, tra le tante, viene ampiamente descritta
negli articoli (che risalgono al 1978) scaricabili qui;
per l'attuazione pratica a Roma Tre ed altrove si può
consultare la documentazione qui.
Per alcune esperienze condotte in università estere, vedi
gli articoli pubblicati qui.
“Ma
– state probabilmente obiettando a questo punto – se
esiste da decenni un insegnamento vivo delle lingue che sia
pienamente cultuale, perché non viene incluso negli
attuali programmi di Lingue, così da poter ridurre il
numero di crediti assegnati alle materie
complementari?” La
mia risposta – forse troppo cinica – è che le
Facoltà non vogliono saperne per poter continuare a fare i
programmi di sempre. Anzi, viene il sospetto che molte
Facoltà (anche se non tutte) possano aver scelto come
lettori, volutamente, insegnanti provenienti dalle scuole di
lingua commerciali e possano aver ingiunto a questi lettori di
continuare ad insegnare in quel modo, per avere una
“dimostrazione vivente” che l'insegnamento “pratico”
delle lingue sia necessariamente meccanico e riduttivo e che,
dunque, gli studenti di Lingue abbiano bisogno di tante materie
umanistiche complementari. In altre parole, queste Facoltà,
pur di non cambiare, avrebbero creato una profezia che si
auto-realizza.
N.B.
Anche se sono stati selezionati per svolgere nominalmente solo
“esercitazioni”, tutti i Lettori svolgono per forza
“lezioni di lingua” (uno
studente può esercitarsi solo su quello che prima gli è
stato insegnato) e
molti Lettori impostano queste loro lezioni anche nell'ottica
culturale descritta sopra. Cioè, per quanto anche
“pratiche” (nel senso che producono studenti che
sanno effettivamente parlare la lingua straniera), queste loro
lezioni costituiscono un insegnamento umanistico vero e proprio.
Ciò nonostante le Facoltà continuano a chiamarle
mere “esercitazioni”, facendo finta di non notare
nessuna differenza -- o forse non accorgendosene nemmeno.
2.
LA QUESTIONE MATERIALE (LE “POLTRONE DA SPARTIRE”)
Fino
a questo punto abbiamo esaminato l'emarginazione
dell'insegnamento vivo delle lingue e di chi lo pratica, come se
si trattasse una lotta puramente filosofica: l'idealismo
(scolastico o gentiliano) contro l'empirismo del primo umanesimo
o della filosofia della prassi gramsciano.
Ma
gli uomini sono fatti anche di carne e ossa e pertanto, nelle
loro lotte per questo o quella idea filosofica, subentrano
necessariamente gli interessi materiali.
E'
ovvio, dunque – e non potrebbe essere diversamente –
che l'emarginazione dell'insegnamento vivo delle lingue e di chi
lo pratica è servita anche per poter aumentare il numero
di cattedre assegnate alle altre materie – e, con le
cattedre, il numero di voti e quindi il potere decisionale nei
vari Consigli.
Infatti, dal
momento che i programmi di Lingue prescrivono tantissime materie
umanistiche complementari, la nostra Facoltà si è
sempre sentita giustificata nel dirottare le cattedre che
potrebbero essere assegnate alle lingue verso queste discipline –
addirittura raddoppiando il numero di docenti per un insegnamento
con pochi studenti mentre i corsi di lingua, che non possono
essere interattivi se sovraffollati, hanno aule di 100 e più
discenti. Ma c'è
di più. Come abbiamo spiegato prima, il ricorso ad
una sotto-docenza per le lingue (ossia, il ricorso ai lettorati)
fa risparmiare alla Facoltà parecchi soldi che poi possono
essere utilizzati per finanziare anche altre discipline poco
richieste o comunque con personale docente più che
sufficiente. Do subito un esempio. Per coprire i 60
crediti offerti annualmente per una determinata lingua, le
facoltà doverebbero in teoria assumere quattro professori
di quella lingua. (Infatti, la legge impone 15 crediti
d'insegnamento all'anno per ogni professore.) Ma se una
facoltà assume due professori regolari e inoltre due
lettori (i quali costano la metà dei primi), risparmia
abbastanza denaro per poter indire un concorso per una nuova
docenza... che sarà immancabilmente un professore di una
materia complementare e non di lingua.
Esiste
però un problema: se i due lettori nel nostro esempio non
sono docenti ufficiali, come si fa a farli insegnare metà
dei crediti da coprire? Abbiamo già visto
l'ingegnosa soluzione: i loro crediti e i loro voti vengono
considerati pseudo-crediti e pseudo-voti, che però
divengono magicamente crediti e voti reali quando vengono
trascritti su un verbale ufficiale da uno dei due docenti
ufficiali. Si tratta
dunque di una truffa pura e semplice? No! – mi
assicurano i miei diretti superiori a Roma Tre – è
solo un piccolo sotterfugio. La
Commissione Europea non è di questa opinione e ha più
volte condannato l'Università italiana per i torti
economici e di dignità professionale inflitti ai lettori.
Ma i Ministri italiani per l'Università, in carica
all'epoca, non hanno riconosciuto i pronunciamenti della
Commissione, o solo in parte; inoltre hanno ottenuto recentemente
dalla Corte di Giustizia di Lussemburgo una sentenza che, mentre
riconosce il perdurare delle ingiustizie verso i lettori, non
applica le relative sanzioni contro il governo italiano
nell'immediato; e perciò il braccio di ferro
continua. In alcuni
casi recenti portati davanti ai Tribunali italiani invece,
singole Università sono state condannate a risarcire i
loro lettori per i danni materiali subiti. E in questo caso le
Università non hanno potuto ignorare le sentenze, per
quanto circoscritte a singoli casi. Per
evitare di perdere altre cause, le Università sono tuttora
in grande agitazione: devono trovare il modo di mascherare il
loro piccolo sotterfugio e di non far apparire i lettori come i
professori quali sono (o meglio, quali sarebbero se fossero stati
reclutati con regolare concorso a titoli come qualsiasi altra
categoria di docenza). Pertanto,
per correre ai ripari, viene disposto che: 1.
i
lettori non devono risultare nell'ordine degli studi o sul sito
delle prenotazioni.
Ora
sapete perché avete tanta difficoltà a trovare dove
andare per le lezioni dei lettori (non devono risultare nemmeno
nelle bacheche luminose).
Ora
sapete anche perché risulta difficile capire come
prenotarvi sul sito di Roma Tre per gli esami “scritti”
di lingua (quelli con i lettori): infatti, dovete trovare quale
professore ufficiale “copre” l'esame dei lettori che
vi interessa e quindi iscrivervi al suo esame “scritto”
– che ovviamente verrà condotto invece da un
lettore; 2.
i
lettori non devono firmare i verbali.
Ora
sapete perché quando superate l'esame dei lettori dovete
aspettare che ve lo verbalizzi un professore ufficiale nel
contesto di un suo esame. Infatti, per l'Università
l'esame dei lettori è soltanto uno pseudo-esame svolto da
pseudo-docenti, non verte su una materia disciplinare ufficiale
come gli esami ufficiali svolti con criteri ufficiali nelle aule
ufficiali dai professori ufficiali sui testi ufficiali dei loro
programmi ufficiali.
Non
solo, ma ora sapete anche perché se non convalidate un
esame dato con i lettori entro l'anno accademico, esso diventa
invalido: infatti, uno pseudo-esame su una materia effimera non
può che produrre voti deperibili. Solo gli esami parziali
(esoneri) svolti da un professore ufficiale possano produrre voti
che siano validi da un anno all'altro. 3.
infine,
i
voti che danno i lettori non devono apparire in nessun documento
pubblico e quindi devono sparire dal mio sito web.
Infatti, per anni mettevo
sul mio sito i risultati degli esami, anche per evitare agli
studenti fuori sede o che abitano lontano di dover recarsi
ripetutamente in facoltà, per vedere se fossero usciti i
risultati e quali fossero. Ora mi è stato
espressamente richiesto di non affiggerli più e, anzi, di
far sparire quelli affissi in passato.
In
pratica, pubblicamente
i
lettori possono tutt'al più esprimere un giudizio verbale
sul rendimento dello studente, ma il voto in cifre deve essere
dato ufficialmente dal docente regolare. E' chiaro che
privatamente
il
docente consulta il voto dei lettori ma nessuno deve sapere che
esistono questi voti numerici. Voi studenti dovete dimenticare di
averli visti in passato, sia su questo sito, sia nei colloqui con
i lettori quando vi hanno indicato i vostri punti deboli e forti
per guidarvi nello studio.
“Sì!
Sì! – ci sussurra premurosamente all'orecchio Mamma
Università – dimenticate tutto quello che avete
visto! Non è successo niente! Era soltanto un
brutto sogno.” Brutto per chi? UN
ULTIMO COMMENTO
Il
dizionario De Mauro offre, tra le definizioni della parola
“negro”, anche quella gergale: s.m..
gerg., ghost writer – autore di libri o articoli per conto
di un’altra persona, la quale li firma e ne assume pubblico
merito e responsabilità. Secondo
questa definizione è dunque lecito dire che “i
lettori sono i negri dei docenti di lingue nelle facoltà
universitarie”. Essi fanno il lavoro che poi viene firmato
dal docente ufficiale e presentato come proprio. Anzi,
se applichiamo questa definizione estensivamente, non è
poi tanto esagerato dire che esiste nelle facoltà
universitarie di lingue un regime di apartheid: i bianchi con
uffici nei piani alti, i negri ammucchiati in una unica stanza
senza finestre in basso... A
questo proposito vi vorrei fare una domanda per concludere.
Se voi foste vissuti nell'Africa del Sud quando il regime di
apartheid era ufficialmente in vigore, cosa avreste fatto,
vedendo come venivano trattati i neri? Avreste guardato
dall'altra parte, facendo finto di non aver visto nulla?
Questo è
quello che ci chiede di fare l'Università oggi nel caso
dei lettori.
Dobbiamo
starci?
–Patrick
Boylan, 1 febbraio 2008. (Testo redatto
dall'autore nel febbraio 1979 e destinato ai docenti e agli
studenti dell'allora “Facoltà di Magistero” di
Roma ove insegnava come Lettore. Quella facoltà è
diventata poi la Facoltà di Lettere di Roma Tre nel 1992.
Il testo è stato affisso su questo sito, con
alcune integrazioni, il 1.2.07. Ulteriori
integrazioni sono state aggiunte il 1.2.08 per tener conto della
“Riforma”. Nella sostanza, tuttavia, dopo 30
anni il testo rimane – ahimé! – sempre
attuale.)
|