Pagina pubblicata sul sito della Rete dei movimenti, 3 ottobre 2005

Risposta al Manifesto dei docenti universitari ed intellettuali franco-spagnoli contro la riforma universitaria promossa dal ministri dell'UE     (visibile qui)

Nota: Il Manifesto franco-spagnolo critica i tentativi, su scala europea, di attuare una 'riforma' dell'Università simile quella proposta dal Ministro Moratti in Italia.  Entrambi le 'riforme' mirano cioè:

  • a ridurre, attraverso la precarizzazione, il potere dei professori – in particolare il potere di decidere gli indirizzi di studio. Cioè, fermo restando la liberà d'insegnamento nei singoli corsi, con la 'riforma' i professori avranno meno potere di decidere quale tipi di insegnamenti e di Corsi di Laurea bisogna privilegiare all'università;

  • ad aumentare il potere del 'mercato' sull'università – in particolare, il potere di decidere gli indirizzi di studio, attraverso la graduale riduzione del finanziamento delle università da parte dello Stato e, nel contempo, un incremento del finanziamento da parte delle imprese, diretto verso i settori più 'produttivi'.   




 
 

Contro la riforma o controriforma?

Patrick Boylan
Università Roma Tre

 

Qui inizia un discorso difficile.

Difficile perché si rivolge proprio alla categoria che intende criticare, chiedendole di mettere in discussione i propri privilegi e persino la propria buona fede.

Già, avete indovinato: si rivolge proprio a voi, care lettrici e cari lettori di questo sito, in quanto donne e uomini di cultura, cioè in quanto appartenenti ad una élite che, per dirla con Gramsci, riveste -- in una società da secoli dominata dal modello ecclesiale -- una funzione politico-sociale compromessa col potere.

(Il tentativo di elaborare un discorso di questo tipo mi ha fatto subito capire le difficoltà delle femministe quando chiedono ai maschi di riconoscere di godere di privilegi ottenuti con la frode.  Perché la tesi che cercherò di sviluppare qui è che i nostri privilegi come persone di cultura -- e in particolare come docenti universitari -- sono stati ottenuti in virtù di meccanismi sociali che defraudando interi settori della popolazione, meccanismi di cui forse non siamo consapevoli perché non abbiamo interesse a venirne a conoscenza, ma che comunque perpetuiamo. Un po' come avviene con le disparità di genere.)

Ma arriviamo subito al dunque: a mio avviso, il Manifesto contro il progetto di riforma europea dell'istruzione universitaria, firmato da numerosi intellettuali spagnoli e francesi, va preso con le pinze.

"Ma come? -- mi direte -- il Manifesto è contro la privatizzazione delle università in Europa, contro il loro asservimento al Grande Capitale, contro la formazione di laureati-robotini da inserire nelle catene di produzione. Come si fa ad avere delle riserve su una critica così condivisibile?"

Un momento! Condividerei senz'alcun dubbio l'appello e firmerei subito il Manifesto se io insegnassi in una università francese, tedesca, o inglese (non conosco il ruolo sociale delle università in Spagna).

Ma insegno in una università italiana. E in Italia la situazione è diversa.

Qui si è creata, attraverso i secoli, una docenza universitaria che emula il sacerdozio, una casta di chierici predicatori che, soprattutto nel settore umanistico, usa la cultura come una clava, non per istruire le masse ma per metterle al loro posto, per far loro capire la loro abissale ignoranza e la distanza che le separa dal Sapere. Naturalmente, non bisogna fare di ogni erba un fascio; ci sono docenti diversi, anche facoltà intere diverse, soprattutto nelle "scienze dure". Sto parlando di una particolare funzione politico-sociale di un certo modello di università inserita in un determinato tipo di società. Quale?

In Italia si leggono meno libri di qualsiasi altro paese industrializzato; le biblioteche sono meno utilizzate (dò soltanto questi due indizi ma ce ne stanno tanti): allora è fuori discussione che qui la cultura altamente mediata -- quella che si diffonde attraverso la lettura di testi "seri" e che contraddistingue coloro che occupano i posti di rilievo -- è appannaggio di pochi. Non di tanti, non delle masse. Mentre in Francia, in Germania, in Gran Bretagna, con tutti i loro squilibri interni, le cose non sono a questi livelli. La gente legge. Le biblioteche sono piene. Il tasso di scolarità è alto. L'analfabetismo di ritorno è scarso. Il numero di laureati è due o tre volte la cifra italiana.

Allora bisogna riconoscere che qualcosa non funziona nel sistema di formazione nel Belpaese. Qualcosa di strutturale, poiché la frattura tra colti e popolo, per quanto molto attenuata oggi grazie alla scolarizzazione di massa e l'apertura dell'Università a tutti i diplomati, esiste da secoli e da sempre assolve a medesima funzione politico-sociale.

E siccome gli insegnanti della scuola ricevono la loro formazione principale dall'Università, il centro di riproduzione dei meccanismi sociali di esclusione, per quanto essi iniziano sin dalla scuola, va ricercato proprio nell'insegnamento universitario. Proprio nei corsi che dichiarano di voler conservare e trasmettere il Sapere e le tradizioni.

Insisto su questo punto. Se l'università crea distanze anziché colmarle, la colpa principale non va imputata ai finanziamenti sempre insufficienti o agli organici amministrativi sempre carenti. La colpa sta nell'attuazione, seppure inconsapevole, di un disegno culturale complessivo in cui l'Università si inserisce: quello del mantenimento della cultura alta in mano a pochi eletti, poiché (secondo questa tradizione) solo loro possono apprezzarla e coltivarla.

In questo tipo di società, dunque, l'intellettuale elitario è funzionale al mantenimento dello status quo: Gramsci dà a questa casta il nome di "intellettuali tradizionali", la cui funzione è quella di curare le sovrastrutture già consolidate, di mantenere (anziché colmare) le distanze tra colti e plebe, di servire da diaframma tra chi comanda e chi esegue.

In Italia questa casta è stata straordinariamente efficace: come dicevo, basta guardare il poco utilizzo delle biblioteche, il basso numero di lettori di libri, l'analfabetismo di ritorno, la bassa scolarità rispetto agli altri grandi paesi industrializzati, il numero di laureati due o tre volte inferiore agli altri paesi europei. Quindi si tratta di una casta che, malgrado le sue proclamazioni ufficiali di voler diffondere la Cultura su larga scala, nei fatti mette le masse al loro posto e contribuisce con ciò a frenare le contestazioni dal basso.

Il "basso", poi, consiste in niente di meno del 91% della popolazione adulta lavorativa, cioè tutti coloro che non hanno la laurea (dati OCSE) e che, in ossequio ad un'usanza linguistica sconosciuta o estinta altrove in Europa, sono stati educati a dire "dottore, dottoressa" quando si devono rivolgere al 9% degli italiani che invece ce l'ha: il 9% che occupa tutti i posti di rilievo. Del resto, tra il 91% dei non laureati, il 64% -- quasi due italiani su tre -- non ha nemmeno la maturità (dati OCSE). Si tratta dunque di gente che non ha imparato a leggere tra le righe o ad analizzare dati statistici. Messa davanti a questioni complesse, tende, a meno di non essere politicizzata, ad alzare le spalle e a dire: "Boh, forse non capisco realmente come stanno le cose, lascio che decida il prete o il prof o l'esperto o chi per loro." "Chi per loro" è, naturalmente, il ceto dominante.

Ma i danni si misurano anche in termini economici nazionali: che contributo può dare questo 64-91% della popolazione adulta (a seconda della professionalità richiesta) ad un'economia terziaria avanzata? Ovviamente nulla.

Paradossalmente, gli intellettuali tradizionali contribuiscono a sorreggere questo status quo elitario anche quando, da sinistra, dicono di contestarlo, poiché il loro linguaggio colto e forbito risulta comprensibile solo a loro stessi o agli intellettuali tradizionali di destra (che ovviamente non hanno interesse a cambiare le cose). Le masse, tagliate fuori, possono solo origliare, come i devoti ad una messa di rito ortodosso. Defraudati e zittiti erano, defraudati e zittiti rimangono. Ma c'è di più. Dal momento che non sentono dalla sinistra un linguaggio intellettualmente rigoroso eppure idiomatico e sentito (il "linguaggio della gente" che Gramsci chiamava "nazional-popolare"), prestano l'orecchio al linguaggio nazionalista e populista della destra, il quale non fa altro che rinsaldare, dal basso, il divario colti/plebe. Questo linguaggio, infatti, non eleva la gente culturalmente, anzi l'invischia nei luoghi comuni; tuttavia cattura l'attenzione perché comprensibile istantaneamente. E' il fast food della comunicazione: fa passare subito la fame di sapere, anche se non nutre.

All'università è la stessa cosa: per i docenti tradizionali, anche di sinistra, non esistono alternative (che siano culturalmente qualificate) alle loro lezioni-conferenze, espresse in un linguaggio forbito che spesso passa sopra la testa di molti studenti. E se un collega tenta di fare lezioni basate prevalentemente sulle discussioni guidate tra gruppi di studenti, per alzare le loro capacità riflessive/espressive, egli viene tacciato di demagogia. In quanto ai programmi di studio universitari, non vengono adottati manuali divulgativi -- cosa peraltro giusta, in quanto i manuali sono una forma di fast communication anch'essi -- ma, con poche eccezioni, non vengono adottati nemmeno testi qualificati scritti dai docenti stessi PER GLI STUDENTI, tenendo conto del loro bagaglio culturale di partenza e del loro linguaggio. La maggior parte dei docenti preferisce adottare libri e saggi scritti da colleghi per altri colleghi: conversazioni tra dotti che gli studenti possono solo origliare (spesso a stento). Di nuovo, una messa di rito ortodosso. Non c'è dubbio che uno studente universitario debba imparare a cogliere ANCHE discorsi tra specialisti: ma molti non impareranno a farlo se vengono sottoposti SOLTANTO a discorsi tra specialisti.

La soluzione?

Agli "intellettuali tradizionali" (in particolare agli opinion maker, gran parte dei quali, diversamente dalla Francia o dalla Gran Bretagna, percepisce anche uno stipendio come professore universitario), Gramsci contrapponeva "l'intellettuale organico": organico alle masse, organico al partito e organico alla produzione.

"Cos'hai detto?!" -- esclameranno a questo punto alcuni tra i docenti universitari che leggeranno queste righe e che, pur essendo italiani e persone di cultura. di Gramsci sanno solo i consigli ai figli di "studiare bene", puntualmente riportati nelle antologie scolastiche. "Hai detto un intellettuale che sia organico alla...[qui si turano il naso]... 'produzione'?!? Non si dica mai! Noi difendiamo la Cultura e la Scienza Disinteressate" (tradotto: vogliamo fare ciò che ci pare -- c'è libertà d'insegnamento, no? -- e se i nostri laureati saranno quasi tutti dei disoccupati, peggio per loro, noi ci occupiamo solo di quegli studenti che possono permettersi studi 'disinteressati').

Risultato: alcuni picchi d'eccellenza nell'università italiana, senza dubbio, ma un basso livello d'istruzione superiore nel paese e, riguardo all'attività scientifica condotta all'interno delle università, molti studi, molte ricerche, quindi molti insegnamenti finalizzati a beghe interne, a campanilismi intellettuali e a interessi di clan.

Manca -- come punto di riferimento costante per dipanare le beghe e ri-indirizzare gli interessi -- la pressione di una richiesta autentica di sapere, che esiste sì nella società e che spesso viene espressa dagli stessi studenti (per quanto non sempre in forma articolata), ma che viene in gran parte ignorata da una università puramente autoreferenziale.

Sia ben chiaro: non si chiede all'università d'insegnare "mestieri" ma di dare una formazione culturale approfondita che sia anche spendibile. Le due cose possono conciliarsi e le università lo sanno perfettamente: con la riforma del 2000 hanno creato molte lauree nuove, alettanti, che promettono proprio questo binomio. Purtroppo, spesso si tratta di operazioni di pura maquillage: nei "nuovi" programmi, i corsi sono prevalentemente quelli di prima, insegnati come prima (o comunque nella stessa tradizione).

Un esempio per tutti: per decenni "imparare le lingue" all'università voleva dire imparare a commentare in italiano testi letterari in lingua e a spiegare le regole grammaticali di quella lingua. Ora con i "nuovi" programmi vuol dire imparare (come prima) a commentare in italiano testi letterari in lingua e (ecco la novità) a commentare la struttura e la storia di quella lingua.

Ma continua a NON voler dire imparare le lingue ANCHE in quanto vive. Cioè, continua a NON voler dire imparare a:

  • relazionarsi in lingua (il che include ma va ben oltre imparare a "conversare" in lingua);

  • negoziare in lingua (il che include ma va ben oltre imparare ad "esprimere le proprie idee" in lingua);

  • cogliere la forma mentis culturale di un interlocutore straniero interagendo in lingua: conoscenza umanistica di grande rilievo culturale e, nel contempo, richiestissima dal mondo del lavoro (nonché dalla maggior parte degli studenti che si iscrivono a lingue).

Purtroppo in tre decadi ho sentito un'unica risposta a questa richiesta pressante di saperi linguistici nuovi nel Corso di Laurea in cui insegno: picche. Solo il saper commentare brani letterari e strutture linguistiche costituirebbe "cultura", proprio in quanto si tratta di un sapere con una lunga tradizione esegetica, disinteressato, non organico alla produzione.

Ecco perché vedo problematico il far battaglia, in Italia, per una università che si vanta di non avere legami con il mondo della produzione. I miei studenti devono pur lavorare, non sono figli di papa.

E, soprattutto, NON C'E' DICOTOMIA REALE TRA IL SAPERE E IL SAPER FARE. Questa dicotomia manichea è un'invenzione degli intellettuali tradizionali per non doversi sporcare le mani. Gramsci ha ragione. DEVI essere capace di incidere tecnicamente sui reali processi di produzione (produzione di beni e di servizi come produzione di idee e di visioni in quanto risposte, anch'esse, ad esigenze conoscitive reali) se li vuoi capire criticamente. Senza questa capacità, vendi fumo. DEVI capire la tua storia ma la devi capire come RICOSTRUZIONE VOLUTA DALLA SOCIETA' DI CUI FAI PARTE, i cui meccanismi di produzione e di diffusione di beni culturali e materiali vanno padroneggiati, per poter analizzare il proprio patrimonio in modo corretto. Proprio come faceva Gramsci: linguista di formazione ma linguista che ha saputo incidere sulla sua società perché anche economista, filosofo, sociologo, pubblicista, giurista, storico, oratore ed acuto conoscitore della gestione aziendale, dell'organizzazione politica e via discorrendo.

Ecco perché temo che far battaglia in Italia in favore del Manifesto rischi di fare il gioco di chi vuole difendere lo status quo e, con esso, la casta degli intellettuali tradizionali, diaframma fra la gente e il sapere in quanto modalità del potere.

Certo, oggi chi comanda ha bisogno di un numero più limitato di intellettuali tradizionali, in quanto utilizza massicciamente i media per creare il consenso. Perciò, le frange meno protette di questa casta cominciano ad essere soppresse oppure riciclate per soddisfare le nuove esigenze produttive tipiche di una knowledge society: letteratura, pedagogia, estetica erano discipline, ora sono businesses per creare fiction, training, design.

Infatti, la nostra società terziaria avanzata richiede sempre più intellettuali organici, non quelli tradizionali. Solo che chi comanda li vuole organici unicamente alla produzione, non alle masse come auspicava Gramsci e tanto meno ad un movimento che pone in discussione i rapporti sociali attuali. Donde il boom delle università private, nonché i tentativi, denunciati nel Manifesto, di "privatizzare" le università statali. Chi comanda vuole garantirsi che fiction, training e design vengano insegnati unicamente come "mestieri".

Invece potrebbero essere insegnati, in un corso universitario che mira a formare intellettuali integrali, sia come RIFLESSIONI SULL'UOMO IN UN UNIVERSO DI VALORI (ciò che fanno da sempre i corsi di letteratura, pedagogia, estetica), sia come PREPARAZIONE OPERATIVA EFFETTIVA (ciò che le università pubbliche rifiutano di fare, dando quindi al Grande Capitale la scusa di privatizzarle o di ridimensionarle).

Perciò è vero: gli intellettuali tradizionali sono ormai effettivamente sotto tiro. Tuttavia nell'università italiana questa casta conserva ancora le sue funzioni e le sue prerogative, per quanto intaccate ogni giorno di più. Bisogna portarle soccorso o esigere che cambi? E se deve cambiare, in che senso?
That is the question.

La mia risposta, l'ho appena dato: non bisogna dar battaglia semplicisticamente, come sembra fare il Manifesto, per soccorre una Università che non cambia, in quanto una vittoria -- almeno in Italia -- non farebbe altro che perpetuare l'istruzione superiore elitaria e la dequalificazione educativa dei molti. Una siffatta vittoria, del resto, sarebbe perfettamente coerente con il progetto Berlusconi-Moratti di ridurre l'Italia ad un paese di camerieri per il turismo, un'Italia di poche persone realmente istruite, un'Italia in cui si fa poca ricerca e dove l'insegnamento per le masse è, appunto, dequalificato. "Intanto, le masse devono solo servire" -- cioè servire dio (dice quella parte della Chiesa che asseconda il progetto), servire i turisti (dice la rendita parassitaria), servire la funzionalità del sistema (dicono i politici di turno e tutti quelli che, sfruttando i loro privilegi come donne e uomini di cultura, hanno sempre campato bene in un'Italia ultima nelle classifiche per i livelli d'istruzione popolare).

Ma la cultura (come la democrazia) di un paese non si misura dalla capacità di pochi di interpretare criticamente la realtà e di elaborare raffinati strumenti di analisi e di rappresentazione, ma dalla capacità delle masse in quel paese di farlo. Il Rinascimento si è distinto dai secoli precedenti non per i geni che ha prodotti (intanto, il '200 ha prodotto Dante Alighieri, il più grande di tutti) ma per la diffusione della cultura a strati sempre più ampi. Dante errava da regione in regione alla ricerca di chi lo poteva capire, mentre i grandi artisti del Rinascimento avevano botteghe piene di addetti per soddisfare le incessanti richieste di opere innovative. La forza del Rinascimento è stata nell'ampiezza della produzione e della distribuzione di prodotti culturali e di manufatti d'ingegno -- cioè, malgrado le apparenze, nel suo
anti-elitarismo.

Oggi in Italia, invece, la casta incaricata di formare le giovani generazioni, almeno nel settore umanistico, si difende dai progetti mercantili di riforma universitaria chiudendosi nel suo guscio e riproducendo l'elitarismo responsabile per i tristi dati sull'utilizzo delle biblioteche in Italia o sul numero di libri letti ogni anno o sulla competitività del paese nel settore terziario avanzato. Questa sua scelta, dunque, non va sostenuta. Va contestata. In che modo? Per non perdere il patrimonio di cultura di cui questa casta detiene effettivamente il monopolio, essa andrebbe incentivata a preparare, contrariamente alle sue abitudini, masse di intellettuali organici, tra i cui ranghi scegliere -- non esclusivamente ma prevalentemente -- le nuove leve di docenti universitari. Andrebbero quindi premiate le facoltà che programmano per indirizzi (non per cattedre), favorendo quelli nuovi. Tramite opportuna legislazione, andrebbero incoraggiati passaggi a settori innovativi affini, disattivando il vecchio insegnamento. Andrebbe penalizzata la duplicazione di insegnamenti poco frequentati (o con alti rapporti docente/studenti) presso due università dello stesso territorio. Andrebbero riconosciuti prioritariamente nei concorsi periodi d'
insegnamento (e non solo di ricerca) presso università estere celebri per i loro programmi didattici innovativi nel settore.

Premesso tutto ciò che precede, posso allora dichiararmi d'accordo con il Manifesto nel respingere il tentativo del Grande Capitale europeo (rappresentato da Giscard nella stesura della Costituzione) di cambiare le università UE sul modello USA, dove effettivamente la maggior parte dei finanziamenti universitari viene dalle società private, quindi dove si produce un sapere finalizzato in gran parte alla produzione
ACRITICA di saperi "industrializzati" secondo un pragmatismo di bassa lega che non ha nulla a che vedere con il pragmatismo teorizzato da Dewey (volutamente ignorato proprio perché autenticamente empowering).

Ma nel dire no a Giscard, dobbiamo offrire un'alternativa che non sia il mantenimento dello status quo. Ecco la ragione della proposta appena fatta: un sistema universitario europeo che formi, accanto ad un certo numero di intellettuali tradizionali, un numero superiore di intellettuali gramsciani, cioè intellettuali a 360° che sono anche organici alla produzione. E che, in Italia, alzano effettivamente il livello d'istruzione del 91% del paese che NON ha la laurea, non solo perché essi possiedono una visione integrale dei saperi ma anche perché, lavorando in TUTTI gli strati sociali, disseminano quanto appreso all'università. (Invece una recente indagine della Fondazione Debenedetti ha rivelato che per la stragrande maggioranza dei laureati italiani nel settore umanistico, quanto è stato insegnato loro all'università NON è servito nelle successive attività lavorative. Certo, la cultura non deve "servire" per arricchire, ci mancherebbe altro! Ma fa riflettere il dato che, nelle più diverse attività lavorative di centinaia di migliaia di laureati in Lettere e persino in Lingue, quanto appreso all'università non sia affatto servito.)

Ben inteso, ci sarà inevitabilmente una certa élite anche nel tipo di sistema universitario descritto qui. Una parte dei futuri intellettuali -- organici o tradizionali -- acquisteranno saperi complessi pienamente comprensibili soltanto ad altri specialisti e che rimarranno confinati dunque in questo ambito ristretto. Ma la differenza starà nei
molti laureati (quelli che oggi mancano) i quali, diffondendo in tutti gli ambiti lavorativi quanto essi hanno imparato all'Università, risveglieranno la società complessivamente. Come nel Rinascimento, le biblioteche si moltiplicheranno e il numero di libri in circolazione aumenterà notevolmente. Sarà però un Rinascimento di ancora più vaste dimensioni: l'Internet, ad esempio, sarà utilizzato da tutti per ampliare le proprie conoscenze di fondo e non solo per l'e-mail o per ricercare notizie spicciole. In una parola, l'Italia diventerà a pieno titolo una knowledge society. E, non avendo parcellizzato quel knowledge -- come invece avviene nelle università americane e che, giustamente, bisogna impedire che avvenga nell'UE -- l'Italia avrà addirittura una marcia in più rispetto agli Stati Uniti.

Concludo. Come alcuni di noi abbiamo detto nel '68, nel '78 e nel '90 (la Pantera), la lotta per migliorare l'università deve essere contro l'università voluta dal Grande Capitale ma
ANCHE contro l'università d'élite mascherata da università di massa. "Contro la privatizzazione dell'università" -- si diceva all'epoca -- "ma anche contro l'università che è già nelle mani di un piccolo gruppo di privati, i baroni" (i quali puntualmente dichiarano che il termine è improprio in quanto non esistono più 'baroni' nell'università di oggi).

E' una linea difficile da sostenere perché hai contro di te tutti.

Hai contro di te il Grande Capitale a cui piace il discorso di insegnare "capacità produttive" ma non il discorso di "insegnarle anche come riflessione sull'essere umano nell'universo in quanto sistema di valori."

Hai contro di te i colleghi universitari intellettuali tradizionali, neanche a dirlo, che vedono i tuoi discorsi solo come un attacco ai loro privilegi e all'onore della loro casta. Non lo è: gli studi tradizionali formano benissimo un certo tipo di intellettuale che ha una sua collocazione sociale necessaria. Ma il problema è che, per gli intellettuali tradizionali, l'università deve riprodurre
SOLTANTO la loro casta: sono integralisti che ripudiano la società pluralistica in cui vivono, inquisitori che bollano di eresia qualsiasi proposta di diversificare i saperi insegnati.

Hai contro di te una parte degli studenti: minuscola, è vero, ma determinata. In teoria questi studenti vorrebbero sì una università che offra una formazione completa anche ai compagni che, diversamente da loro, non hanno la vocazione di intellettuale tradizionale. Solo che... non subito, per favore. Non prima che si laureino. Non prima che finiscano il dottorato. Non prima che divengano poi ricercatore universitario. Non prima...

Hai contro di te solo una piccola minoranza della popolazione nel suo insieme, ma una minoranza assai influente -- gli
opinion maker, tutti intellettuali tradizionali. Guai a chi tocca l'idea di cultura che questi soggetti ritengono di incarnare!  Don Lorenzo Milani scrisse che, per far valere in Italia i diritti delle masse che non hanno la parola, bisogna combattere un solo partito: il partito dei laureati. Un partito trasversale che comprende solo il 9% dell'intera popolazione ma che lotta a denti stretti per conservare immutata la propria identità culturale -- che fa egocentricamente coincidere con quella della Nazione -- in quanto, malgrado tutti gli anni di fatica sui banchi della scuola e dell'università, non ha imparato ad adattarla ai tempi.

Quindi la lotta è dura. Bisogna intraprendere un vero
kulturkampf, una battaglia per estirpare dalla società di cui facciamo parte proprio i privilegi ecclesiali di cui noi -- in quanto appartenenti alla piccolissima casta dei laureati -- siamo i fruitori esclusivi. E bisogna cominciare estirpando anzitutto la nostra visione elitaria del sapere, che ci sembra così naturale poiché inculcata sin dalla prima elementare, ma che invece strangola il paese, impedendo alla gente comune, dotata di grandissime potenzialità creative, di realizzarsi appieno (a meno di non emigrare per poterlo fare altrove).

Il Manifesto è giusto, dunque; ma in Italia va preso con le pinze perché facilmente strumentalizzabile da chi vuole mantenere lo status quo. Qui bisogna rimboccarsi le maniche e condurre una lotta su
due fronti, contemporaneamente.