Pagina pubblicata sul sito della Rete dei movimenti, 1 ottobre 2005 
 
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Intellettuali francesi e spagnoli
contro la riforma unificata dell’Università Europea.

 
Mario Sei

 

Da qualche anno a questa parte l’Università europea è implicata in un grande progetto di riforma le cui linee generali sono state tracciate nel Processo di Bologna lanciato nel 1999 e il cui obiettivo fondamentale è la costruzione di uno Spazio Europeo dell’istruzione Superiore (European Higher Education Area) che armonizzi i sistemi dei diversi paesi dell’Unione. Le autorità coinvolte in questo progetto parlano di una vera “rivoluzione educativa” e danno praticamente per scontato che sui suoi contenuti esista un consenso implicito e generalizzato.

Il progetto di riforma lanciato nel 1999 segue in effetti il suo corso senza aver incontrato, finora, grandi ostacoli e i 45 ministri dell’educazione dell’Europa allargata, riuniti nella conferenza ministeriale tenutasi a Bergen, in Norvegia, il 19 e il 20 maggio scorso, hanno potuto valutare i progressi che sono stati realizzati a partire dalla conferenza di Bologna e dal vertice di Berlino del settembre 2003. Nell’incontro di Bergen i ministri hanno inoltre stabilito le tappe future da seguire per la costruzione dello Spazio Europeo dell’istruzione Superiore che dovrà diventare operativo entro il 2010.

Con l’intento d’incrinare il supposto consenso al Processo, frutto in realtà di una pura finzione, e di smascherare i veri contenuti di questa riforma universitaria, un folto gruppo di professori e ricercatori spagnoli e francesi hanno redatto un Manifesto, dal titolo Per quale educazione? Manifesto di professori e ricercatori universitari, consultabile all’indirizzo elettronico: http//fs-morente.filos.ucm.es/debate/inicio.htm, che sperano si diffonda presto in tutti i paesi dell’Unione. Essi invitano tutti coloro che sono coinvolti da questo progetto di riforma a un serio dibattito sul modello di Università che si pretende costruire, un primo passo a cui dovrà poi seguire la convocazione degli Stati Generali dell’educazione europea come mezzo per imprimere una reale inversione delle priorità da seguire.

Senza negare la condizione di crisi in cui si trova l’educazione o la necessità di creare un modello omogeneo d’Università in seno all’Unione, ciò che il Manifesto rifiuta sono i principi a cui il Processo di Bologna s’ispira. Come emerge dai recenti working papers della Commissione Europea in tema d’istruzione superiore, esiste in realtà una profonda convergenza tra gli obiettivi del Processo di Bologna e la Strategia individuata dal Consiglio europeo di Lisbona del 2000, vera road map del neoliberalismo europeo. Con l’obiettivo dichiarato di rendere “l’economia europea, basata sulla conoscenza, la più competiva al mondo, capace di generare una crescita economica durevole” il rischio è quello di attuare un’ insidiosa riconversione industriale dell’intero sistema educativo per soddisfare le esigenze del modello politico neoliberale.

La competitività e la crescita economica sono in effetti i due soli obiettivi attorno a cui si è costruita l’attuale convergenza delle più alte istanze europee sul tema dell’istruzione superiore ed è alla loro realizzazione che dovrebbe sottomersi l’intero panorama accademico: l’organizzazione delle discipline, la distribuzione delle cattedre, delle facoltà e degli istituti universitari, dei programmi di studio e dei metodi educativi; tutto ciò che è frutto di lunghi secoli di storia del sapere umano, costruito sulla base di dialoghi, polemiche e confutazioni, e sul lavoro di milioni di scienziati che hanno contribuito a creare uno spazio pubblico e “oggettivo” di riflessione critica della società su se stessa, si frantumerebbe completamente per seguire la mutazione permanente delle esigenze del mercato

Per rendersi conto che le cose stanno realmente in questi termini, è sufficiente andarsi a leggere uno dei documenti attualmente tra i più citati dalle istanze politiche europee che si occupano d’istruzione, il Projet Tuning Educational Structures in Europe (http://www.relint.deusto.es/TUNINGProject/index.htm). In esso tutte le proposte ruotano, in effetti, attorno alla necessità di una “formazione continua, flessibile, trasversale e psicoattiva” il cui obiettivo è evidentemente quello di fabbricare la figura archetitpica del professionista, in grado di essere costantemente informato e capace d’adattarsi ai bisogni aleatori d’un mercato del lavoro sempre più imprevisibile. Il compito di educatori e professori non consisterbbe più nella trasmissione di conoscenze e di discipline che si sono sviluppate nel tempo attraverso ritmi propri ed esigenge teoriche specifiche, ma si si risolverebbe nel plasmare gli individui alle “attitudini, le capacità e le competenze” che il mercato di volta in volta richiede. Si tratta, si legge nel documento, di mettere l’Università al servizio della società, la quale è però impropiamente identificata alle sole figure degli imprenditori, degli agenti economici e delle industrie, che nel loro insieme sono, di fatto, le fonti principali da cui si pensa reperire i fondi per finanziare l’educazione pubblica.

E’ ormai evidente a tutti, d’altra parte, che il finanziamento pubblico alla ricerca non cessa di diminuire e che quando viene erogato è perchè ha previamente ottenuto il benestare da parte di agenti economici privati che giudicano la “qualità” della ricerca stessa in base alla sua redditibilità a breve termine. In questo modo si annulla ogni margine d’autonomia e d’indipendenza del mondo accademico e della ricerca scientifica, a cui dovrebbe invece essere garantito un sostegno pubblico appunto nei casi in cui l’impresa privata non intende elargire fondi perchè non intravede guadagni. La tendenza opposta a finanziare unicamente i settori della ricerca che il mercato giudica redditizi significa, paradossalmente, che si finanziano interessi e attività private con denaro pubblico, mentre dai bilanci dei singoli stati la spesa per attività d’interesse collettivo, giudicate non redditizie, continua a ridursi. La stessa riforma europea dell’istruzione superiore, del resto, come emerge chiaramente dallo studio della Commissione Europea del dicembre 2004 relativo al suo finanziamento, dovrà realizzarsi tendenzialmente a “costo zero” per i bilanci pubblici e basarsi, in modo preponderante, sull’aumento e sulla diversificazione dell’apporto privato.

E’ dunque nella logica neoliberale della Strategia di Lisbona e, in modo ancora più evidente, in quella dei negoziati per l’Accordo Generale sul Commercio dei Servizi (AGCS), che deve essere interpretato il senso profondo e l’orientazione del progetto di riforma dell’istruzione superiore europea. Il VI vertice ministeriale dell’OMC che si terrà ad Hongkong il prossimo dicembre darà sicuramente un forte impulso all’Agenda di Doha del 2001, in cui l’istruzione superiore era stata considerata un’ambito d’interesse fondamentale sia da parte di grandi società di servizi (European Service forum, US coallition of services industries, Australian services roundtable et Japan Services Network), sia da parte dei paesi all’avanguardia nel sostenere la liberalizzazione dell’educazione come gli Stati Uniti, l’Australia e la Nuova Zelanda. Considerata come una merce o un servizio al pari del telefono e dell’elettricità, si sostiene che ogni finanziamento statale all’istruzione costituisce un ostacolo al libero mercato. L’articolo 15 del testo dell’AGCS afferma, in effetti, che le sovvenzioni hanno “un effetto di distorsione nel commercio dei servizi” e che quindi “ogni stato membro il quale ritenga che una sovvenzione accordata da un altro stato membro gli sia pregiudizievole potrà chiedere una procedura d’esame e fare appello all’organismo deputato alla risoluzione dei conflitti”, ovvero al tribunale dell’OMC che adotterà delle sanzioni contro ogni paese che faccia ostacolo alla libera concorrenza. Sarebbe quindi illusorio pensare che, in assoluta contro tendenza, l’attuale progetto europeo di riforma dell’istruzione superiore possa andare nel senso di un aumento del finanziamento pubblico, come qualcuno pretende far credere.

Sebbene per certi aspetti sia probabilmente già tardi, contro tali disegni cominciano comunque a manifestarsi diverse forme d’opposizione che possono costituire dei seri ostacoli alla loro realizzazione. Al di là della resistenza del mondo accademico, che i riformatori stessi riconoscono essere il principale collo di bottiglia da superare o neutralizzare, diversi indizi mostrano che anche gli studenti e altri settori della società civile stanno prendendo coscienza della gravità del problema. Il tema dell’istruzione è stato dibattuto, in effetti, nel corso di diversi Forum sociali ed è argomento specifico del Forum Europeo sull’Educazione la cui seconda edizione si è svolta a Bergen in concomitanza con la Conferenza ministeriale del maggio scorso. E’ però importante che il dibattito si estenda alla società intera riuscendo a coordinare una forma d’opposizione a livello europeo ed è appunto ciò che si propone di fare il Manifesto Per quale educazione? Manifesto di professori e ricercatori universitari.

La posta in gioco è effettivamente altissima poichè possiamo sicuramente considerare l’università, la scuola e, più in generale, la trasmissione del sapere come un servizio, ma è imperativo capire e decidere quanto e cosa, di questo servizio, debba essere pubblicamente o privatamente gestito e come da questa decisione dipenda il tipo di società a venire. Forse mai come oggi una tale decisione si rivela cruciale, dato che per la prima volta nella storia la produzione e la trasmissione della memoria e del sapere collettivo costituisce la principale attività di un sistema tecno-industriale per cui, evidentemente, le unità di memoria, di sapere e delle forme simboliche sono solo delle merci destinate a produrre reddito e ad essere quindi inserite nel ritmo dell’innovazione permanente al pari di qualsiasi altra merce. Ma una memoria e un sapere collettivo in continua trasformazione non possono più degni d’essere chiamati con questo nome e se priviamo ad ogni contenuto di sapere o di forma simbolica la possibilità di depositarsi e di sedimentarsi pubblicamente impediamo anche la formazione di qualunque criterio sociale e pubblico di demarcazione tra sapere e non sapere, tra verità e falsità, condizione di ogni politica e di ogni sentimento di cittadinanza.

E’ per queste ragioni che voler preservare il settore dell’educazione dal mercato e opporsi ad un’eccessiva ingerenza del privato non ha nulla di demagogico, ma è oggi assolutamente vitale. Sarebbe certo positivo coordinare il dissenso che in Italia si manifesta contro le riforme del sistema educativo del ministro Moratti in un contesto europeo e il Manifesto può costituire, su questa via, un buon punto di partenza.

 


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