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IRAQ: IL NOSTRO FUTURO SI GIOCA NEI PROSSIMI GIORNI

Se fossimo vissuti all'epoca della sciagurata colonizzazione dell'Abissinia, saremmo stati anche allora con le mani in mano?
Ce lo chiede Tariq Ali, scrittore anglo-pakistano nella Lettera agli italiani che segue questa nota.


Fra poco il parlamento discuterà se rinnovare o meno la presenza delle truppe italiane in Iraq "per portarvi la democrazia" -- in realtà per portare avanti la colonizzazione italiana della zona intorno a Nassiriya, dove a quanto pare l'AGIP ha scoperto tempo fa un po' di petrolio. Il governo di destra vuole il "sì": è riuscito a convincere persino una parte della sinistra ad accettare, tramite l'astensione, questo ritorno all'infausta epoca coloniale. E il resto della sinistra, che fa?


Questo governo, da quando si è insediato, fa di tutto per educare la gente a disprezzare le leggi (soprattutto quelle fiscali e quelle varate per fermare la mafia) nonché a disprezzare chi in Italia vuole far rispettare quelle leggi da tutti.


Ora, con l'invio delle truppe per assecondare Bush, questo governo vuole educare la gente a disprezzare anche la legge internazionale e ad accettare il colonialismo (condannato dalla risoluzione ONU 1514/60). Ma così facendo torniamo indietro di un secolo. Incoraggiamo altri paesi (Giappone, Russia, India) a fare come gli USA e a sottomettere pretestuosamente altri popoli con le armi. Sappiamo poi come queste cose finiscono: la corsa per accaparrarsi paesi poveri provoca liti e guerre tra paesi ricchi (insomma, lo scenario mondiale di cent'anni fa). Ma siamo ancora in tempo: possiamo tentare di arrestare questa lenta degenerazione, non mandando truppe in Iraq ed esigendo il ritiro di quelle statunitensi.


Ricordiamocelo: gli Iracheni non hanno violato nessuna legge internazionale, quindi né gli USA né nessun altro paese hanno il diritto di stare nel loro paese e di arrestarli, torturarli, e poi ucciderli se non accettano di essere colonizzati.


Purtroppo in queste ultime settimane anche le truppe italiane si sono messe a fare retate e ad "arrestare" chi è contrario all'occupazione USA. Ma si può usare il termine "arrestare", come fa la TV, quando non c'è né veste legale né mandato né capo d'accusa né niente? Quando non puoi avere né un avvocato né visite? Quando nessuno sa dove ti portano né come ti trattano (praticano torture come gli americani?)? E poi sarebbe "portare la democrazia" questo? Che differenza c'è tra come noi trattiamo i nostri oppositori in Iraq e come Saddam trattava i suoi?


Questa illegalità totale è un'offesa contro l'umanità. Ed è una illegalità che il governo, le sue TV ed i suoi giornali ci stanno facendo accettare come normalità. Poco a poco ci stanno inculcando una logica da Ultra dello stadio: "Siccome ci hanno attaccato a Nassiriya -- mi ha detto, infatti, uno studente l'altro giorno -- ora abbiamo il DIRITTO di stare nel loro paese ed di ammazzarli come ci pare".


Fermiamo questa degenerazione, ci chiede Tariq Ali nella sua lettera. Leggetela.


Patrick Boylan
Docente, Università di Roma Tre
Firmatario del primo manifesto Not in out name

30.1.2004


Segue la Lettera agli italiani dello scrittore anglo-pakistano Tariq Ali*
*direttore della 'New Left Review'.

(in parte accorciata e glossata, con il consenso dell'autore, per velocizzarne la lettura.
Per il testo integrale, v. più avanti.)



"Bush è in Babilonia. Dove sono i pacifisti?" di Tariq Ali



L'Iraq è ancora oggi teatro di incredibili sofferenze, del tipo che solo esseri umani che agiscono per conto di stati e governi (autoritari o democratici) sono capaci di infliggere ad altri esseri umani.


L'Iraq, oggi, è il primo paese nel quale possiamo studiare la genesi della colonizzazione, versione ventunesimo secolo.


Era per prevenire una tale calamità che, il 15 febbraio 2003, milioni e milioni di persone hanno marciato per le strade del mondo. Solo a Roma, ce n'erano due milioni. Come mai tutte queste persone, che si sono opposte attivamente alla guerra, ora hanno assunto un atteggiamento passivo di fronte all'occupazione?


È possibile che la mentalità coloniale -- che molti di noi del Sud del Mondo avevano sperato fosse un triste ricordo del passato -- sia ancora radicata nell'inconscio collettivo del Nord del mondo? O lo è la convinzione, a essa collegata, che la civiltà occidentale debba essere imposta con le bombe alle popolazioni degli Stati recalcitranti? O, forse, si tratta del semplice desiderio di imporsi sugli altri "per il loro bene"; per cui l'imperialismo italiano viene visto come una specie di opera pia della Caritas sotto bandiera McDonald's?


O forse è ancora radicata nell'inconscio collettivo italico l'idea che, dal momento che ci sono disordini nell'Iraq, l'occupazione/colonizzazione sia il male minore? Speriamo di no. Perché Mussolini poté occupare l'Albania e l'Abissinia invocando proprio quel ragionamento (anzi, ora ci sono le prove che il Regime ha provocato i disordini nell'Abissinia per poterla poi "pacificare" e colonizzare con il benestare dei ceti medi).


I pacifisti italiani sarebbero, dunque, contro la guerra "calda", ma a favore dell'occupazione? E a favore della guerra "strisciante" che necessariamente l'accompagna? Non vi sembra una contraddizione?


Comunque sia, questo sembra essere il sentimento di qualche leader dei DS -- e dei suoi amici che dispongono di spazio illimitato sulle pagine de "La Repubblica" -- i quali si affrettano poi a dire che preferirebbero una maschera ONU (sebbene questo non cambierebbe il carattere dell'occupazione, né della lotta che viene condotta contro di essa.) Quando, ad esempio, Bernando Valli definisce la resistenza irachena "terrorismo", chiude volutamente gli occhi e ogni discussione.


Negli Stati Uniti la decisione di riferirsi agli iracheni e alla loro lotta con i termini di "terrorismo" e di "guerriglia" piuttosto che di "resistenza" è stata presa dai direttori editoriali del Los Angeles Times e del New York Times. Hanno imposto i vocaboli da usare ai loro inviati in Iraq. Che volete fare, così intendono la libertà di stampa in America. Ma che giornalisti del calibro di Valli diventino propagandisti del governo è allo stesso tempo inspiegabile e imperdonabile.


E tutto questo dopo il 12.11.2003, il giorno fatale in cui a Nassiriya i carabinieri italiani, al servizio di un invasore straniero, sono stati attaccati dai partigiani.


(Una domanda, caro lettore: la frase precedente ti suona strana? Già. Ho dimenticato gli ordini editoriali. Non dovevo dire la parola "partigiani". O la parola "invasore". Ricordano troppo i versi di "Bella ciao".)


Ma perché c'è una base dei carabinieri italiani nell'Iraq del Sud? Per aiutare la "ricostruzione"? Ma aiutare chi? A ricostruire cosa? Quei carabinieri erano davvero al corrente dello scopo coloniale e quindi repressivo della loro missione? Gli ufficiali, come il Ministro della Difesa, sì (vedi "Delusions in Baghdad", New York Review of Books, 18.12.2003). Ma i carabinieri che stavano di guardia?


Sono dunque i politici, con la loro ansia di assecondare servilmente gli USA in tutto, ad essere responsabili della morte dei militari italiani a Nassiriya. Questi politici sarebbero dovuti essere il bersaglio della stampa democratica italiana, non gli iracheni che stanno cercando di liberare il loro paese con le stesse tattiche che usarono i partigiani italiani per cacciare i tedeschi (via Rasella, ad esempio). Noi sappiamo che Silvio Berlusconi e il compare Gianfranco Fini non sono di certo grandi ammiratori della Resistenza italiana. Per cui non possiamo aspettarci che improvvisamente sostengano una variante irachena o palestinese. Ma la sinistra?


Tutti i rapporti dall'Iraq sulla stampa americana stanno mettendo in luce quanto la brutalità della colonizzazione sia fortemente radicata. Sulla prima pagina del New York Times ("Barriers, Detentions and Razings Begin to Echo Israel's Anti-Guerrilla Methods", 7.12.2003) l'inviato a Baghdad manda un lungo dispaccio che comincia così: "Con l'intensificarsi della guerriglia contro i ribelli iracheni, i soldati americani hanno cominciato a circondare interi villaggi con il filo spinato. In alcuni casi, i soldati americani stanno demolendo edifici che si ritiene vengano utilizzati dagli attaccanti iracheni. Hanno cominciato a imprigionare i parenti di sospetti guerriglieri nella speranza di spingere i ribelli a consegnarsi". Suona familiare? È in corso un'occupazione coloniale. Echi di Algeria, Vietnam, Angola, Sudafrica.


Su tale questione, almeno, il regime di Berlusconi, che molti tra di voi disprezzano (comprensibilmente), è più coerente. Dopo tutto, l'Italia ha appoggiato la guerra. Inviare contingenti per dimostrare la propria fedeltà all'impero americano è il passo successivo -- proprio come hanno fatto certi Stati dell'Est, che sono passati tranquillamente da un'alleanza all'altra mantenendo la condizione di stati satellite.


Pochi possono negare che l'Iraq sotto l'occupazione americana si trovi in uno stato assai peggiore di quando era sotto Saddam Hussein, persino durante l'embargo. Non c'è ricostruzione. C'è disoccupazione di massa. La vita quotidiana è fatta di sofferenza e gli occupanti e i loro fantocci non riescono nemmeno a provvedere alle necessità di base della popolazione.


E ricordiamolo ancora una volta: questa gente non ha violato nessuna legge, non ha minacciato nessuno, ha respinto Bin Laden come fanatico, non aveva piani di attacco contro nessuno, non aveva armi atomiche, non aveva armi chimiche, non aveva laboratori segreti, non aveva niente di niente. Tranne il petrolio. Quello sì.


Come deve reagire quel popolo per riavere il proprio paese, la propria libertà, il diritto di gestire le proprie risorse? Chiaramente, non avendo più un esercito, per molti di loro il ricorso alle bombe in missioni suicide sembra l'unica via rimasta.


E così gli Stati Uniti non si fidano degli iracheni neanche per pulire le loro caserme; vengono importati filippini per le loro mense e pulisci-cesso dall'Asia Meridionale. Ecco dunque il nuovo volto del colonialismo: si è "globalizzato".


Ma ancora più comico-grottesca è stata l'affermazione di Paul Wolfowitz, il "cervello" della colonizzazione dell'Iraq, durante una conferenza stampa a Baghdad. Dopo essersi lamentato che tra i partigiani iracheni c'erano molti volontari provenienti da altri paesi, Wolfowitz ha concluso la conferenza dicendo: "Il problema principale in Iraq, amici miei, è che qui ci sono troppi stranieri".


Volete davvero appoggiare, con la vita dei vostri giovani, gente così ottusa ed arrogante?


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(Potete leggere il testo integrale, senza le riscritture, su "il manifesto" del 29.1.04.)


L'anno scorso, a maggio, ho messo su questo sito un appello rivelatosi (ahimé) premonitore. Speriamo che in futuro non potrò dire la stessa cosa di questo appello.

Per vedere l'appello del 24.5.03, cliccare qui.